lunedì 14 gennaio 2013
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Gentile direttore,
in merito agli aspetti etici e professionali del trattamento di fine vita, su cui si sta discutendo da molto tempo, mi sembra opportuno, come medico, prospettare, in aggiunta a quanto correntemente si propone, alcune considerazioni inerenti alle funzioni del medico. Fra i tanti argomenti discussi non mi sembra che sia stata rivolta adeguata attenzione alle sofferenze cui il malato può andare incontro in seguito alle misure terapeutiche attuate. Può darsi che il curante con la migliore intenzione di rendersi utile si impegni in interventi terapeutici molteplici, più o meno invasivi, che possono anche dare una iniziale impressione di una certa utilità, purtroppo per lo più transitoria, ma essere molto fastidiosi o addirittura dolorosi per il paziente. Nella mia carriera mi sono trovato di fronte a malati che a un certo momento della degenza hanno chiesto di essere liberati da ossessivi interventi, quali le infusioni venose di vario tipo ripetute nella giornata, cortisonici, analettici, antibiotici, antidolorifici e così via, e di essere lasciati morire in pace. In alcuni casi si trattava di interventi al confine fra accanimento e ragionevole condotta terapeutica. Non è fuor di luogo ricordare che il paziente ha sempre diritto a rifiutare la terapia, come ci è stato anche insegnato da luminosi esempi di Giovanni Paolo II e da Carlo M. Martini. Personalmente sono convinto che anche nello stato di incoscienza, profonda o meno, il malato possa manifestare minuziosi segnali, quali appena percettibili movimenti delle labbra e degli occhi, che spesso vengono interpretati come segni vitali favorevoli, e invece essere segnali di insofferenza e di rifiuto del dolore. Chi può essere sicuro al riguardo? Una corretta interpretazione di questi segnali potrebbe venire principalmente dai familiari, che sono spesso in grado di conoscere le reazioni emotive del paziente, e dal medico curante che è chiamato ad apprezzare meglio il rapporto fra misura e tipo dello stimolo con la qualità e tipo della reazione del malato. A tal punto di fronte a un possibile incremento della sofferenza ci si deve chiedere se sia moralmente lecito proseguire nelle terapie più impegnative e non limitarsi a minime infusioni nutritive nell’attesa di una eventuale, poco probabile ripresa. Penso che il medico, e non il legislatore, sempre più sarà chiamato a una scrupolosa e sapiente valutazione di ogni singolo caso con l’attenta considerazione degli apporti provenienti dal contesto familiare. Con molti cordiali saluti.
Domenico Andreani, Professore Emerito della Facoltà Medica dell’Università di Roma "Sapienza"
Lei, gentile professor Andreani, con questa sua riflessione–testimonianza può ancora una volta aiutare chi non avesse idee chiare a capire bene che cosa sono l’«alleanza terapeutica» tra il medico e il paziente (e i suoi familiari), il «consenso informato» e il «rifiuto dell’accanimento terapeutico», la nutrizione e idratazione sostenibili e mai negabili. Trovo illuminante, in questo senso, il richiamo alle esemplari vicende umane e cristiane di due malati terminali come il beato papa Giovanni Paolo II e il cardinal Martini. Niente a che vedere con forme di eutanasia o di suicidio assistito. Esattamente ciò che era al centro della cosiddetta “legge sulle Dat” che nella legislatura appena conclusa, dopo quattro anni di esame approfondito e grazie a un significativo consenso trasversale raccolto al Senato e alla Camera, era arrivata a un passo dall’approvazione definitiva. E questo nonostante l’impressionante battage politico–mediatico ostile e gravi ostracismi politico–istituzionali. Purtroppo, alla fine, odiosi veti e penosi giochetti hanno vanificato il gran lavoro svolto. Un altro dei fallimenti di una XVI legislatura che ha messo a nudo l’inadeguatezza (e persino la strumentalità e la dannosità) di certe offerte e di certi stili politici che hanno dominato quella che viene chiamata Seconda Repubblica. Pensare che, dopo la parentesi del salvataggio “tecnico” d’emergenza di un Paese in piena frana economico–finanziaria e con una credibilità internazionale ridotta ai minimi termini, ci sia chi si è davvero convinto di poter riprendere più o meno come prima, riproponendo vecchi schemi e slogan un po’ imbellettati e un po’ imbruttiti, fa letteralmente cadere le braccia. Ma allarma non poco dover constatare che politici vecchi e nuovi, in tutti gli schieramenti, sembrano non rendersi ancora conto che senza saldi valori morali di base e senza limpide visioni antropologiche non si esce davvero e definitivamente dalla crisi. Siamo in un tempo di ambiguità forse non tutte egualmente studiate ma tutte rischiose, eppure c’è tanta gente che cerca affidabile chiarezza, ci sono tanti elettori che la reclamano. Esattamente come nel rapporto col proprio medico: per speranza e per dignità, per rispetto e amore alla vita, per voglia di accoglienza e di futuro.
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