venerdì 10 agosto 2012
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A fare impresa, ci si rimette. Non conviene più. E non è solo colpa della crisi, anche se ovviamente la recessione crea seri problemi alla remunerazione del capitale investito. In Italia, ha spiegato bene un rapporto di Mediobanca diffuso in questi giorni, paga di più investire in Btp che nelle imprese, perché le aziende attualmente distruggono ricchezza. In buona sostanza, è come dire che se avete un’impresa in Italia vi conviene vendere tutto al miglior offerente e mettervi comodi provando a vivere di rendita. Cioè comprando titoli del debito pubblico, nella speranza di evitare comunque il default dello Stato, ipotesi purtroppo non più solo accademica; o magari investendo in case da affittare, sempre che il settore del mattone tenga e che il governo dopo l’Imu non pensi a un’altra bella patrimoniale sulla rendita immobiliare. Rischi a parte, il concetto resta lo stesso: fare impresa "non conviene". Il dato statistico è molto utile e importante, perché aiuta a capire lo stato di salute di un sistema, la sua attrattività, la sua dinamicità e quant’altro. Riflettere sui termini e sugli automatismi delle sintesi, però, può aiutare a comprendere una parte dei problemi che affliggono l’economia, non solo quella italiana. Proviamo, allora, a farlo domandandoci: perché si fa impresa? Per guadagnare, ovvio. Lo stesso motivo per cui si lavora. Ma che cos’è il guadagno in un’impresa? È solo il ritorno sul capitale che si investe, o è qualcos’altro che non si traduce solo in maggiore ricchezza per sé? E, altra questione: può essere paragonato questo guadagno con una rendita, cioè col calcolato disimpegno, con la rinuncia a costruire ricchezza per una comunità e un territorio?Porsi queste domande in una fase nella quale è considerata già una fortuna se un’azienda non chiude per non riaprire più, lasciando a spasso centinaia di dipendenti, e nel momento in cui anche la Banca centrale europea lancia l’allarme sugli accresciuti rischi di insolvenza delle imprese italiane, può sembrare fuori luogo, se non paradossale. Eppure, a ben vedere, l’interpretazione del concetto di guadagno è una parte del problema. Lo sanno molto bene quelle centinaia e centinaia di imprenditori che nonostante le condizioni avverse e la voglia di mollare tutto, restano comunque ancorati, aggrappati al frutto del proprio impegno e della propria responsabilità. E ne sono consapevoli quegli imprenditori e quegli operatori attivi nelle cosiddette "imprese sociali", nelle cooperative dove non si fa impresa calcolando il diretto e immediato vantaggio personale, ma si guarda innanzitutto al bene della collettività. I dati che da anni ormai riguardano l’universo delle cooperative sociali raccontano di una tipologia di impresa che, nonostante il ciclo negativo, cresce, offre lavoro o quantomeno riesce a mantenerlo stabile. Non è un universo che fa enorme massa critica, con poco meno di un milione e mezzo di occupati, e va riconosciuto che, se ci si occupa di dare risposte alla frontiera del bisogno e dei servizi alle persone, è evidente che si insiste su di un segmento di mercato che in una fase di crisi può solo crescere. È tuttavia altrettanto evidente che, al di là della forma di impresa, è nell’impegno a costruire benessere diffuso, nella tensione verso il bene comune, che risiede la formula di un modello di successo. Le cooperative sociali hanno numeri forse limitati, ma il vantaggio di una enorme flessibilità anche delle dinamiche occupazionali e retributive, che riescono a gestire con minori traumi proprio perché il lavoro, e il lavoratore, non sono messi sullo stesso piano di una rendita. O, almeno, così è assai spesso e sempre dovrebbe essere.Le analisi dimostrano che anche nell’economia sociale funziona meglio chi riesce ad avere cultura imprenditoriale, valorizza le persone che coinvolge e su cui può contare e impara a confrontarsi apertamente con la realtà del mercato, abbandonando schemi superati e pregiudizi ideologici. C’è, insomma, un varco sottile che unisce le imprese – che siano "non profit" o "for profit" conta fino a un certo punto – ed è la consapevolezza che fare impresa, e farla bene, è sempre e comunque buono per la società e per l’economia. Un valore più alto di qualsiasi rendita.
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