mercoledì 22 settembre 2010
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Separazione e morte. Un amore che inciampa, si disgrega, si trasforma in lotta feroce, coinvolge dolorosamente – quando ci sono – i figli, e finisce in tragedia. Capita sempre più spesso. L’altro ieri a Brescia, dove un padre ha ucciso la figlioletta di 3 anni e, poi, si è tolto la vita. Nei giorni scorsi in Veneto, in Toscana, in Piemonte. Troppi casi di incomprensione e di sangue tra (ex) coniugi perché non ci si soffermi a riflettere, a mettere in fila dati e pensieri. E la realtà, a guardare i numeri per quello che sono, fa paura. Se è vero che nove volte su dieci le cosiddette "tragedie della separazione" nascono da un matrimonio fallito, non possiamo rimanere indifferenti al fatto che nell’Unione europea il numero annuo dei divorzi sia pari alla metà dei matrimoni e che due terzi delle famiglie siano ormai senza figli. Tanti divorzi e pochi bambini. Ingredienti esplosivi che rischiano di trasformare la fisiologica fragilità di una coppia in conflittualità latente, in rabbiosa solitudine, in forme patologiche di rivendicazione. Oggi in Europa ci sono 55 milioni di persone che vivono sole, dopo il fallimento di un rapporto di coppia. Non tutte, per fortuna, a "rischio tragedia", ma le statistiche non sono un’opinione. Al di là della retorica buonista sulle "nuove" famiglie, sulle famiglie "allargate", diventa sempre più chiaro che, se cresce in modo indiscriminato il numero di coloro che si lasciano, si riprendono, si "ricompongono", cresce parallelamente il lungo, insidioso filo delle incomprensioni, dei rancori, delle situazioni sospese ad alto rischio.«Cuori infranti», si diceva una volta con un pizzico di ironia, quasi a ribadire che le questioni amorose devono rimanere private e confinate tra le pareti di casa, per essere risolte lì, a quattr’occhi. La Chiesa, al contrario, ha sempre sottolineato con forza che il matrimonio è per sua natura – al di là dell’aspetto sacramentale – fatto sociale. Anzi, se si potesse fare una classifica, la "più sociale" delle decisioni perché modifica in profondità la vita delle persone, perché dalla coppia si allarga alle famiglie di origine, ai figli, ai parenti, agli amici, alla società, in una catena di intrecci e di sovrapposizioni ampia e feconda. Ecco perché una coppia che va in crisi e si frantuma passa troppo spesso dall’entusiasmo della tenerezza alla delusione dell’odio, con le conseguenze dolorose che ogni giorno la cronaca ci offre. E sono fatti che riguardano tutti, a cominciare dalle istituzioni civili ed ecclesiali. Se è vero, statistiche alla mano, che il numero dei fatti di sangue è direttamente proporzionale alla crescita delle separazioni, dei divorzi, delle cessazioni delle convivenze, l’impegno dovrebbe essere finalizzato proprio a cementare la coppia, a contenere il dilagare delle incomprensioni e delle rotture. Le associazioni familiari chiedono da tempo la modifica della legge sul divorzio con l’introduzione della mediazione obbligatoria. Una sorta di terapia di accompagnamento che potrebbe essere utilmente introdotta anche nella legge, peraltro largamente inapplicata, dell’affido condiviso. Tutto giusto. Sarebbe però utopico pensare di risolvere una questione che investe così profondamente cuore e mente solo a colpi di interventi legislativi. Serve forse un segnale culturale forte, serve la volontà di incidere sul modo di pensare e di agire. Perché, allora, non suscitare la nascita di questo segnale controcorrente all’interno delle nostre comunità? Non sarebbe importante per esempio completare l’ormai decennale trasformazione dei percorsi di preparazione al matrimonio avviando autentiche scuole di formazione per i fidanzati, dove accanto alle testimonianze dei valori cristiani non manchi il contributo delle scienze umane? E con un pizzico di coraggio, determinante in situazioni come quella che stiamo vivendo, perché non rendere questi percorsi non solo credibili come impianto culturale e ambizioni formative, ma anche irrinunciabili in vista delle nozze? Sarebbe una prova, magari minima ma significativa, che noi all’amore di coppia che costruisce, all’amore risorsa per la società, crediamo davvero. Perché, mi chiedo, non tentare?
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