sabato 11 gennaio 2014
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Basta leggere i commenti che da ogni parte del mondo, usando il riferimento #onemillionaitzaz, da giorni affluiscono alla bacheca elettronica di Twitter. Commossi quelli dei non pachistani, che esaltano come un eroe Aitzaz Hassan, il ragazzo di 14 anni che nel villaggio di Hangu, nel Pakistan che confina con l’Afghanistan, si è immolato per fermare un kamikaze che voleva farsi esplodere nella sua scuola. Arrabbiati quelli dei pachistani, che piangono il ragazzo come una vittima. L’ultima di una serie sconfinata di vite: quelle sacrificate al fanatismo e alla violenza. Hanno ragione gli uni e gli altri, naturalmente. Come si potrebbe non parlare di eroismo in questo caso? Minacce, sparatorie e attentati sono da anni l’inevitabile accompagnamento della vita quotidiana nella regione del Khyber Pass, Aitzaz non poteva non sapere quanto stesse rischiando nel momento in cui cercava di fermare l’attentatore. Ma ancor più difficile sarebbe non capire i sentimenti dei pachistani, chiamati a piangere il ragazzo nelle ore in cui l’ex presidente Ali Asif Zardari finisce sotto processo per corruzione per le ricchezze accumulate nel periodo in cui fu primo ministro della moglie (poi assassinata) Benazir Bhutto, nei giorni in cui l’ex dittatore Pervez Musharraf viene accusato di tradimento dello Stato, nelle settimane in cui l’attuale premier, Nawaz Sharif, per la terza volta in carica, si mostra sempre più incapace di affrontare le sfide del governo, siano esse il terrorismo, la disoccupazione o i cronici black out della rete elettrica. Di fronte a questo non tutti i giovani pachistani hanno lo spirito per affidare a Twitter un commento come quello di Ishan Alì Sabiri, che cita Winston Churchill per dire: «Nessun successo è finale, nessun fallimento è fatale: ciò che conta è il coraggio di andare avanti». Al contrario, molti si sentono lasciati soli, abbandonati di fronte ai violenti da un regime che oggi piange Aitzaz ma dal 2009 tiene in carcere Asia Bibi e altre decine di persone solo perché non ha (appunto) il coraggio di intervenire sull’assurda legge contro la blasfemia, usata come una clava contro le minoranze dalle frange più fanatiche dell’islam pachistano. È stato calcolato che metà delle vittime delle guerre degli anni Novanta era formata da ragazzi di età inferiore ai 18 anni. Oggi è ancora così. E ancora una volta emerge quanto molti sostengono da tempo: la battaglia contro i fanatici si vince nelle scuole. Tayyab Younis, un giovane di Lahore (Pakistan), ha scritto su Twitter: «Malala ha rischiato la vita per l’educazione, Aitzaz ha sacrificato la propria per quelli che cercano un’educazione». Difficile descrivere in modo più efficace i due piani su cui impegnarsi per il riscatto.
Nel caso di Malala Yousafzai, la ragazza pachistana che fu ferita alla testa dai talebani e ora è candidata al premio Nobel per la Pace, la difesa del diritto di tutti, ma delle ragazze in particolare, a ricevere un’educazione utile e completa. In questo la cooperazione dei Paesi democratici e sviluppati, in primo luogo quelli occidentali, è fondamentale. Ma poi c’è il piano locale, l’azione nella comunità, in cui nessuno può sostituire i cittadini dei singoli Paesi, siano essi afghani, pachistani, iracheni. Aitzaz ci ha dato un modello altissimo, in questo senso. Che dev’essere maturato, però, in una famiglia, in un gruppo, in un quartiere, insomma in un qualche contesto favorevole. Ecco: mentre onoriamo il sacrificio di Aitzaz, non dimentichiamo il lavoro oscuro di queste persone. Per lui possiamo solo tener desta la memoria, per loro possiamo fare anche molte altre cose.​
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