mercoledì 6 febbraio 2013
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*** AGGIORNAMENTO DEL 30 SETTEMBRE 2020 L'ex sottosegretario Nicola Cosentino assolto in appello nel processo "Il Principe e la scheda ballerina" per uso di capitali illeciti nella costruzione di un centro commerciale a Casal di Principe. LEGGI QUI

Fango. Lanciato per insozzare la memoria di don Peppino Diana e disorientare quelli che credono in lui, nell’impegno della Chiesa aversana e nella giustizia. Nel processo a carico dell’ex segretario all’Economia, Nicola Cosentino, i pentiti Dario De Simone e Carmine Schiavone hanno affermato che a don Peppino sarebbe stato regalato il calcestruzzo per la sagrestia della sua parrocchia da qualcuno in odore di camorra. Figurati. Don Peppino, nato, cresciuto e poi parroco a Casal di Principe era conosciuto e conosceva tutti. Tutti. Compresi i camorristi e gli aspiranti tali. Alcuni erano suoi vecchi amici di scuola, di giochi o di catechismo. Altri, addirittura, suoi lontani parenti. Era più che normale che negli anni avesse a che fare con tanti di loro.La domanda da fare è che rapporto avesse con loro, e allora qualche delucidazione è d’obbligo. Un prete è un ministro di Dio e della Chiesa, non è un poliziotto, né un magistrato. È un uomo indifeso che ha tra le mani un potere che spaventa: il potere di una Parola che non è sua. Una Parola che se accolta riesce a cambiare anche i cuori più induriti e portarli a pentimento. Don Peppino è un prete. Le lacrime versate, le notti passate in preghiera per la brutta situazione in cui versa la sua parrocchia e il suo paese sono note solo a lui, al suo confessore e a Dio. Don Peppino ama la sua gente e la sua terra. Sa che la camorra la tiene prigioniera, e lui vuole riscattarla. Preti a Casale ce ne sono sempre stati. Preti santi, voglio dire. Preti che, nel segreto, hanno asciugato le lacrime di tante mamme deluse e addolorate; che si sono consumati per educare i fanciulli e tenerli sulla retta via. Don Peppino, però, sente che non basta. Che occorre osare di più. Che bisogna essere più espliciti e trasparenti. Senza paura e senza riguardi. E parla, denuncia, scrive. Tanto che uno dei pentiti si sente in dovere di avvertirlo. «Corri rischi... Lascia perdere... Fingi di non vedere...». E, aggiunge oggi, «lo lasciavano in pace perché era mio parente...». Ho i miei dubbi. I camorristi non guardano in faccia a nessuno, tant’è vero che don Peppino sarà trucidato nella sua stessa chiesa. È quantomeno sospetto questo voler infangare la memoria di don Peppino alla vigilia delle elezioni. Non solo. Ma alla vigilia della beatificazione di don Pino Puglisi, il sacerdote palermitano ucciso dalla mafia. Non sono pochi da queste parti a pregare perché anche per don Peppino si apra il processo di beatificazione. Questi due preti si somigliano. La loro sorte per certi aspetti è simile. I parroci in prima linea sanno quant’è difficile l’equilibrio tra il richiamo del Vangelo e quello dei fratelli, il desiderio di libertà e quello della santità. Dove finisce l’uomo? Dove comincia il prete? Quando tacere? Quando alzare la voce? Succede che dopo aver predicato, denunciato, incoraggiato sentono il bisogno di osare di più. Sanno che la politica la fanno gli uomini. E gli uomini si dividono in galantuomini e farabutti. In ignavi e coraggiosi. In onesti e disonesti. È difficile per tutti starsene zitti proprio ora davanti a chi ha già ingannato i semplici e vorrebbe continuare a farlo. In ballo non ci sono ciliegine ma i valori alti cui un cristiano non può assolutamente rinunciare. In ballo c’è il futuro del Paese che amiamo e cerchiamo di servire. Può essere anche vero – ma non ci credo, ed è tutto da verificare – che don Peppino nel 1991, quando aveva 33 anni, consigliò qualcuno a votare per il suo compaesano e coetaneo Nicola Cosentino convinto di fare bene. Non vuol dire proprio niente. La carriera politica e i guai giudiziari di costui erano infatti ancora da venire. La storia si snoda lentamente. Calunnie. Calunnie, però, che se insozzano i colpevoli fanno beati i giusti. E il caro don Diana è tra questi.

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