Mubarak fa un altro passo indietro, pensa di trasferire alcuni suoi poteri al vice-presidente Omar Suleiman, ma non intende dimettersi. La vicenda egiziana è sempre più ingarbugliata, alla fine di una giornata drammatica, vissuta con il fiato sospeso dopo l’annuncio di una svolta che aveva galvanizzato la piazza. E che alla fine lascia la folla con la delusione di dimissioni che non sono arrivate. Eppure, è già possibile trarre qualche lezione. L’arbitro che ha deciso di cercare di mettere fine alla lunga e drammatica partita, apertasi il 25 gennaio tra il raìs ed il movimento di protesta, è l’esercito. Anche se la parola fine non è stata scritta. La rivolta, generata dalla profondità dello spazio virtuale della rete e dei social netwok, è dilagata in tutto il Paese. Un popolo costretto per tanti anni al mutismo ha alzato la voce gridando la sua voglia di libertà. È il trionfo di quella che è stata chiamata «la Repubblica di piazza Tahrir», la roccaforte della protesta dove per 17 giorni, nonostante i ricatti del governo e gli attacchi sanguinosi dei miliziani del partito unico di regime, è andato in onda l’incredibile spettacolo della democrazia, un happening variopinto cui hanno preso parte studenti in jeans e contadini in tunica, ragazze vestite all’ultima moda occidentale e donne col velo integrale, cristiani e musulmani, tutti insieme per chiedere verità e dignità, libertà e giustizia sociale. Di fronte a questa pressione dal basso la piramide del presidente-Faraone ha cominciato a perdere pezzi, in una confusa e tardiva perestrojka che però non ha investito del tutto il potere del vecchio leader, ostinatamente attaccato alla poltrona. La sua promessa di non candidarsi alle prossime elezioni di settembre è stata accompagnata dalla pretesa di rimanere a guidare il processo di transizione, contando sull’appoggio internazionale e sulle divisioni dell’opposizione. Intanto dagli Stati Uniti giungevano messaggi ambigui, con un portavoce che contraddiceva un altro. Un balletto che allargava la distanza tra il gioco politico (anche, e inevitabilmente, diplomatico e internazionale) e l’Egitto reale. Il movimento di protesta è rimasto infatti compatto nel chiedere le immediate dimissioni di Mubarak. Un braccio di ferro insostenibile per il più grande Paese del mondo arabo il cui leader, cocciuto e orgoglioso, è ormai un ostacolo da rimuovere per tanti, quasi tutti. In che modo? La risposta è stata abbozzata dall’esercito, i cui vertici sono apparsi in tv annunciando «l’avvio di misure necessarie per proteggere la nazione e sostenere le legittime richieste del popolo», una formula che ricalca i messaggi con cui nel mondo arabo sono spesso iniziati i colpi di Stato. Più delle parole sono state eloquenti le immagini: l’intero Stato maggiore riunito, ad eccezione del comandante supremo, Hosni Mubarak appunto. È stato evitato, probabilmente, lo scenario peggiore, quello di una repressione sanguinosa. A meno che la piazza, delusa, tenti la spallata finale. Mubarak resta come un simulacro vuoto, sotto la tutela dell’esercito, vero padrone della situazione. Le Forze armate si confermano l’arbitro principale del durissimo bracco di ferro tra la protesta polare e il vecchio raìs. Piazza Tahrir ha visto in poche ore trasformare la sua gioia in rabbia e delusione. E oggi sarà un altro venerdì di collera. Una collera sempre più grande.