venerdì 11 febbraio 2011
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Mubarak fa un altro passo indietro, pensa di trasferire alcuni suoi po­teri al vice-presidente Omar Suleiman, ma non intende dimettersi. La vicenda egiziana è sempre più ingarbugliata, al­la fine di una giornata drammatica, vis­suta con il fiato sospeso dopo l’annun­cio di una svolta che aveva galvanizzato la piazza. E che alla fine lascia la folla con la delusione di dimissioni che non sono arrivate. Eppure, è già possibile trarre qualche lezione. L’arbitro che ha deciso di cercare di mettere fine alla lunga e drammatica partita, apertasi il 25 gen­naio tra il raìs ed il movimento di prote­sta, è l’esercito. Anche se la parola fine non è stata scritta. La rivolta, generata dalla profondità del­lo spazio virtuale della rete e dei social netwok, è dilagata in tutto il Paese. Un popolo costretto per tanti anni al muti­smo ha alzato la voce gridando la sua vo­glia di libertà. È il trionfo di quella che è stata chiamata «la Repubblica di piazza Tahrir», la roccaforte della protesta dove per 17 giorni, nonostante i ricatti del go­verno e gli attacchi sanguinosi dei mili­ziani del partito unico di regime, è an­dato in onda l’incredibile spettacolo del­la democrazia, un happening variopin­to cui hanno preso parte studenti in jeans e contadini in tunica, ragazze vestite al­l’ultima moda occidentale e donne col velo integrale, cristiani e musulmani, tut­ti insieme per chiedere verità e dignità, libertà e giustizia sociale. Di fronte a questa pressione dal basso la piramide del presidente-Faraone ha co­minciato a perdere pezzi, in una confu­sa e tardiva perestrojka che però non ha investito del tutto il potere del vecchio leader, ostinatamente attaccato alla pol­trona. La sua promessa di non candidarsi alle prossime elezioni di settembre è sta­ta accompagnata dalla pretesa di rima­nere a guidare il processo di transizione, contando sull’appoggio internazionale e sulle divisioni dell’opposizione. Intanto dagli Stati Uniti giungevano mes­saggi ambigui, con un portavoce che contraddiceva un altro. Un balletto che allargava la distanza tra il gioco politico (anche, e inevitabilmente, diplomatico e internazionale) e l’Egitto reale. Il mo­vimento di protesta è rimasto infatti compatto nel chiedere le immediate di­missioni di Mubarak. Un braccio di fer­ro insostenibile per il più grande Paese del mondo arabo il cui leader, cocciuto e orgoglioso, è ormai un ostacolo da ri­muovere per tanti, quasi tutti. In che mo­do? La risposta è stata abbozzata dall’e­sercito, i cui vertici sono apparsi in tv an­nunciando «l’avvio di misure necessarie per proteggere la nazione e sostenere le legittime richieste del popolo», una for­mula che ricalca i messaggi con cui nel mondo arabo sono spesso iniziati i col­pi di Stato. Più delle parole sono state e­loquenti le immagini: l’intero Stato mag­giore riunito, ad eccezione del coman­dante supremo, Hosni Mubarak appun­to. È stato evitato, probabilmente, lo sce­nario peggiore, quello di una repressio­ne sanguinosa. A meno che la piazza, de­lusa, tenti la spallata finale. Mubarak resta come un simulacro vuo­to, sotto la tutela dell’esercito, vero pa­drone della situazione. Le Forze armate si confermano l’arbitro principale del du­rissimo bracco di ferro tra la protesta po­lare e il vecchio raìs. Piazza Tahrir ha vi­sto in poche ore trasformare la sua gioia in rabbia e delusione. E oggi sarà un al­tro venerdì di collera. Una collera sem­pre più grande.
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