Sinner, dietro un grande campione grandi genitori
lunedì 29 gennaio 2024

Quindi esistono. Ci sono genitori che non sbraitano contro l’arbitro quando annulla un goal al figlio, che non ritengono il proprio ragazzo un fenomeno e non si mettono in aspettativa sicuri che ne otterranno fama e milioni. Quelle mamme e quei papà che non proiettano sui loro ragazzi sé stessi e al telefono prima di sapere se hanno vinto o perso chiedono semplicemente: come stai? Hai mangiato? Trovarli non è poi tanto difficile, basta scorrere l’agenda del vicino di casa che il martedì, giovedì e sabato porta “il bambino” agli allenamenti e la domenica si alza all’alba per vederlo correre su un campo ghiacciato. Diventerà un campione? L’importante è che si diverta, l’inevitabile risposta, detta battendo le mani per ripararle dal freddo.


La vittoria di Sinner all’Open d’Australia è anche loro. Anzi, forse, soprattutto loro. Genitori di chi, come il nostro campione, è stato libero di scegliere cosa volesse fare e non si è mai sentito costretto a vincere, quasi fosse un debito di riconoscenza. «Auguro ai bambini» di avere delle mamme e dei papà come i miei, le parole di Jannik con in mano il trofeo del torneo di Melbourne. Dedicarlo semplicemente ai suoi, al papà cuoco Hansepeter e alla mamma Siglinde ex cameriera, sarebbe stata scontato, quasi banale. Meglio il non detto, l’accennato, come il linguaggio silenzioso dell’amore, che ti fa trovare il piatto caldo in tavola quando torni a casa tardi, e ti sveglia con una carezza giusto in tempo per uscire senza affannarti. Però dietro quel silenzio, che parlava più di mille discorsi, c’era il grazie per non avergli messo addosso troppa pressione, per il “cappotto” di calda tranquillità con cui si protegge ogni giorno, e, soprattutto per la sofferenza taciuta, pur essendo tagliente come un coltello, nel vedere il figlio andare via di casa a 13 anni. Perché se Jannik ha dovuto imparare «a fare la lavanderia», come dice lui, a cucinare e a fare la spesa, la scuola cui, giocoforza, si sono iscritti i suoi genitori non è stata meno pesante. Loro hanno dovuto fingere tranquillità al telefono, si sono imposti di rimanere calmi malgrado il cuore carico di preoccupazioni, rinunciando, di sicuro con dolore, agli abbracci di un bambino che in un attimo è diventato uomo.

Lo sport, lo dimentichiamo troppo spesso, è anche questo. Ha l’indirizzo di un collegio lontano da casa, è l’adolescenza evaporata su un campo di allenamento, significa perdersi il compleanno di un fratello perché coincide con una gara. Però se si riesce a resistere il successo è grande. Non tanto per le coppe in vetrina o il conto in banca a sei zeri, che pure sono molto importanti, ma per gli occhi negli occhi quando ci si vede, per il calore che senti addosso nel tornare a casa, per l’affetto gratuito racchiuso in una frase. «È stato importante fare colazione insieme ai miei tutta la settimana», disse Sinner alle Finals di Torino. Una frase carica di non detto come quelle di Melbourne. Quando Jannik ha ringraziato tutti, a cominciare dai raccattapalle. Ragazzine e ragazzini com’era lui l’altro ieri, all’inseguimento del suo stesso sogno. Forti della medesima speranza, che non ci sia nessuno a rinfacciarglielo se non lo raggiungerà. Perché liberi, anche di perdere.


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