sabato 25 ottobre 2008
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I Paesi produttori di petrolio " con in testa i sauditi " li chiamano "tagli per la stabilizzazione del mercato". Il premier britannico Gordon Brown la definisce invece "una decisione incresciosa e irresponsabile"e la Casa Bianca "un provvedimento contro il mercato". Nonostante ciò l'Opec (il cartello che raduna 13 dei grandi produttori mondiali di greggio) ha deciso ieri di tagliare a partire dal primo novembre la produzione giornaliera di 1,5 milioni di barili al giorno. Dal loro punto di vista " che è e rimane essenzialmente quello del profitto " gli undici signori dell'Opec (Iraq e Indonesia ne fanno ancora parte ma non rispettano più gli accordi interni sulle quote) sono molto preoccupati per la precipitosa discesa dei prezzi del petrolio: se ricordate, solo nel mese di agosto sfiorava i 160 dollari, mentre ieri in apertura dei mercati a New York navigava cento punti sotto, attorno ai 63,05, un secco 6% in meno rispetto al giorno precedente. Se occorreva un segnale ulteriore della gravità e della complessità della crisi economica in mezzo alla quale ci troviamo, questi dati ne sono una conferma: se cioè neppure i litigiosi ma potentissimi arbitri dell'oro nero sono più in grado di determinarne i corsi, significa che la deriva innescata dalla crisi finanziaria ha assunto una tale forza da non poter più essere governata, se non da se stessa. Il termine più appropriato infatti è recessione, malattia endemica di tutte le economie mondiali, che a quanto sembra ha finito per aggredire perfino i ricchi produttori di greggio: Paesi come il Venezuela di Hugo Chavez " grande elemosiniere del continente latinoamericano, da Cuba alla Bolivia " basano le proprie politiche (e quindi la propria stabilità interna) su un prezzo al barile pari almeno a 120 dollari. Sotto quella soglia non sono più possibili certe scelte populistiche e certe alleanze. Così pure l'Iran di Ahmadinejad adopera con successo la leva petrolifera come cuneo per sfibrare le economie occidentali. Si staglia dunque sul panorama dei mercati un nuovo suggestivo ritorno al passato: come negli anni Settanta all'indomani dello choc petrolifero, i grandi Paesi produttori di greggio si rivelano attori di primo piano (anche se amano stare dietro le quinte), capaci di sfruttare le opportunità che la congiuntura di volta in volta fornisce loro: che ad agire siano i fondi sovrani (come fanno gli Emirati del Golfo) o le banche centrali (come i libici con Unicredit), piuttosto che le manovre sulle quote petrolifere, le petro-nazioni tornano ad essere protagoniste del mercato. Lo scenario " nella sua drammaticità " sembra risultargli favorevole: secondo l'Ocse la recessione durerà almeno due anni (ieri vi è entrata ufficialmente la Gran Bretagna mentre le Borse asiatiche e europee precipitavano di nuovo a livelli abissali e Wall Street bloccava gli scambi sui futures), e i Paesi petroliferi annusano il profumo di ottimi affari nel medio periodo. Ma anche per loro si profila un pericolo mortale: il crollo dell'industria automobilistica. I segnali di allarme (Ford, General Motors, Renault, Volkswagen stanno mettendo migliaia di dipendenti in mobilità) già ci sono. E la recessione, anche per chi controlla i rubinetti del greggio, potrebbe essere dietro l'angolo.
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