martedì 18 novembre 2008
COMMENTA E CONDIVIDI
Un accordo piccolo, se proiettato sullo sfondo gigantesco della Storia, ma, nel suo piccolo, comunque «storico», quello intergovernativo siglato ieri a Baghdad dal ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari e dall'ambasciatore statunitense Rayan Crocker sul ritiro delle truppe americane in Iraq, ritiro da completarsi entro il 31 dicembre 2011. Un accordo «storico» perché, anche in caso di un improbabile rigetto da parte del Parlamento iracheno (chiamato a pronunciarsi il 24 novembre) e del Consiglio presidenziale, esso segnala un mutamento di rotta della Casa Bianca, sinora contraria alla fissazione di date per il ritiro delle proprie forze dal Paese, e, ciò che più conta, il possibile inizio della fine vera della guerra. L'accordo è importante anche formalmente, in quanto fornisce un quadro giuridico per la presenza militare (circa 150mila uomini, oggi) degli Stati Uniti in Iraq dopo la scadenza, il prossimo 31 dicembre, del mandato delle Nazioni Unite, e, a partire dalla seconda metà del prossimo anno, proibisce quella presenza nei centri abitati, togliendole il diritto di intervento arbitrario nelle abitazioni private e ponendola in sostanza sotto l'autorità del governo iracheno. L'accordo che, salvo improbabili incidenti, verrà solennemente firmato a Washington dal presidente statunitense George W.Bush e dal premier iracheno Nouri al-Maliki, sembra dunque prospettare una conclusione più rapida, e migliore del previsto, della sfibrante e sventurata guerra all'Iraq, indicando da una parte una lodevole resipiscenza da parte dell'attuale inquilino della Casa Bianca e dall'altra lasciando all'inquilino prossimo, Barack Obama, un tempo più lungo ed agevole di quello che aveva invocato per il ritiro dall'Iraq e la «giusta stabilizzazione» dello stesso. Insomma, e grazie a Bush, è come se Obama avesse avviato la soluzione del "problema Iraq", il primo della propria agenda estera, senza aver dovuto scrivere nemmeno una riga, nessuna comunque dopo quella con la quale aveva promesso il ritiro del grosso delle truppe nell'arco di sedici mesi, ossia entro l'estate del 2010. Promessa che oltretutto potrebbe mantenere, perché l'accordo intergovernativo appena siglato non vieta agli americani di andarsene prima della fine del 2011. Ovviamente l'accordo non cancella tutti i timori presenti e futuri in Iraq e per l'Iraq. Una vera riconciliazione nazionale non c'è stata, permangono seri e fondati dubbi sulla nascita di una pacifica federazione autonoma tra curdi, sciiti e sunniti, le risorse energetiche non sono ancora equamente distribuite e saggiamente sfruttate (perdura, per esempio, la penuria di gas e benzina), i propositi dell'Iran restano misteriosi, e in definitiva, mentre il governo centrale si è rafforzato ma non è ancora in grado di assicurare da solo legge ed ordine, permane il rischio di una disgregazione in un clima di brutale violenza, Violenza che fa da tempo le sue vittime tra le minoranze, e specialmente quella cristiana, soggetta a una vera e propria persecuzione. In conclusione: è giusto che gli Stati Uniti lascino l'Iraq che hanno invaso cinque anni fa, ma non è meno giusto che lo facciano dopo aver contribuito a garantire sicurezza e stabilità all'intera popolazione. E tutto questo non soltanto per ripristinare, come vagamente dice Obama, la perduta «autorità morale degli Stati Uniti», ma per restituire dignità e fiducia a un popolo che tanto ha sofferto e che tanto è stato e continua ad essere umiliato, dai propri governi come dagli altrui.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: