martedì 14 maggio 2013
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È davvero così rilevante che l’assassino di Ni­guarda fosse un nero irregolare? In queste settimane le cronache sono state costellate di e­splosioni di una follia altrettanto improvvisa e annichilente. Pensiamo solo alla famiglia pu­gliese sterminata da un padre fino a quel giorno ritenuto normalissimo. O alla madre ventenne brutalizzata nel Casertano da un convivente ge­loso. È riduttivo catalogare la tragedia di Milano come legata al cosiddetto fattore 'clandestinità': abbiamo sotto gli occhi le storie di italiani doc ca­duti in una distruttività o autodistruttività tota­le sotto agli occhi di parenti e amici, che non si erano accorti di niente. Ciò che forse facciamo fatica a ammettere è che l’assassino di Niguarda è, semplicemente, un uomo; e nemmeno tanto diverso da noi da poterlo chiamare 'mostro'.
Guardando la sua foto segnaletica colpiscono gli occhi, colmi insieme di aggressività e di pau­ra. Gli occhi di un uomo che è scappato dal suo Paese, chissà in che modo è riuscito a arrivare in Italia, e da anni vive tra espedienti e violenza e carcere; e in questa vita da cani è stato emargi­nato perfino dagli irregolari suoi connazionali. Un lupo solitario in cui una miseria umana to­tale è stata il detonatore di una malattia proba­bilmente già latente. Il che non giustifica, e tan­tomeno consola, della terribile morte di un uo­mo, e, ieri, di un ragazzo di 21 anni. Però dire che Mada Kabobo è semplicemente un uomo ci sembra più realistico che addebitare a un 'altro da noi', magari con la pelle diversa, il male che ci atterrisce. È un 'topos' costante della crona­ca nera, questo istinto di spiegare il male dicen­do che non è nostro, che viene da fuori.
Anni fa davanti alla casa della strage di Erba, nei primi giorni, si percepiva bene questa ostilità per lo 'straniero' che, certamente, aveva mas­sacrato anche un bambino. Quando si seppe che erano stati il netturbino e la donna delle pulizie che tutti conoscevano e tanti stimavano, su Er­ba piombò il gelo – e nessuno aveva più voglia di dichiarare niente ai cronisti. Il fatto è che il male esiste, e non riguarda un’etnia, ma proprio l’uomo. È una possibilità che abbiamo scritta dentro, e che scegliamo o non scegliamo (anche se in certe condizioni di disperazione a volte sembra che la nostra libertà sia spinta, e quasi trascinata verso il male). Negare che il male ri­guardi l’uomo in quanto tale è la dimenticanza di uomini drammaticamente distratti, o, a vol­te, interessati a creare capri espiatori. E se guar­diamo all’alba di sabato in quella periferia di Mi­lano, possiamo immaginare nell’uomo che si è svegliato e ha preso un piccone, dentro alla sua follia, due stati d’animo che purtroppo non so­no necessariamente esclusivi dei folli. Uno è la perdita totale del desiderio di vivere, e l’altro u­na assoluta, spaventevole solitudine.
Elementi che potremmo ritrovare anche in mol­te delle tragedie delle case italiane. E se la perdi­ta del senso a volte può ascriversi a depressione o pazzia, la solitudine invece è un’esperienza profondamente umana. Si può essere soli in u­na casa affollata, se non si è più in grado di dirsi davvero, o se nessuno ascolta. Si può essere soli in una famiglia in cui non sembra mancare nien­te, e della quale i vicini il giorno dopo diranno: mai avremmo immaginato. Il punto è non cre­dersi radicalmente diversi, e salvi, dal male che è tracimato in Mada Kabobo, l’altra mattina, tra­sformandolo in una macchina cieca di morte. Se quell’uomo non è un alieno sceso fra noi, se il suo male arriva a lambire, e in questi tempi ci arriva spesso, le vite 'normali', bisognerà pure ricono­scerselo addosso, e aiutarsi a cercare di arginar­lo. E il primo aiuto è fra noi, è per ciascuno nella faccia dell’altro; è nel non stancarsi di guardare e ascoltare chi abbiamo davanti, e se ci è possi­bile allungare all’altro una mano. La possibilità di quella che l’arcivescovo di Milano Angelo Sco­la chiama «la vita buona», è solo in un quotidia­no, ostinato, paziente essere con l’altro.
Chissà se altre tragedie non sono state evitate dal modesto gesto di qualcuno, che ha teso una mano. Chissà se ignote solidarietà non hanno fermato altre disperazioni. E certo non lo im­maginano, gli autori di quei gesti, di avere, con poco magari, salvato un uomo.
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