venerdì 30 novembre 2018
È balzato sulle prime pagine solo dopo l’in(attesa) dichiarazione di Salvini e l’infelice decisione del premier Giuseppe Conte di disattendere la conferenza di Marrakesh
(Ansa)

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Rimasta per molti mesi oggetto di un diffuso 'disinteresse', l’iniziativa di un Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare è prepotentemente balzata sulle prime pagine dei giornali solo dopo l’in(attesa) dichiarazione del vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini e l’infelice decisione del premier Giuseppe Conte di disattendere l’ormai imminente conferenza di Marrakesh, rimettendo al Parlamento la scelta di aderire o meno al patto. È facile liquidare questi recenti accadimenti come un’ulteriore esibizione di quel 'braccio di ferro' con le istituzioni europee e sovranazionali di cui il ministro dell’Interno è indiscusso protagonista, e che continua a generare ampi consensi nell’opinione pubblica (questo almeno a quanto dicono i sondaggi). Ma, proprio affinché questa occasione non vada sprecata, è utile interrogarci (ed è utile che il Parlamento, chiamato a prendere una decisione, si interroghi) su alcuni punti che il tema della governance della mobilità umana inevitabilmente solleva.

Innanzitutto il tema del presidio delle frontiere nazionali. È inutile illuderci che, nell’attuale sistema Stato-centrico, i governi nazionali rinuncino – tanto meno in nome di aneliti umanitari – al controllo delle frontiere, oggi rappresentato come l’ultimo vessillo di una sovranità nazionale travolta dalla globalizzazione economica, finanziaria e mediatica. Questo vale per i governi 'sovranisti' – a partire dall’America di Trump, ostinatamente impegnata nella costruzione di un muro che la 'difenda' dall’altra America –, ma vale anche per quelli che a parole ne prendono le distanze (a partire dalla Francia, da anni coinvolta in una politica di respingimenti verso l’Italia, condita anche da qualche 'incursione' oltreconfine dei suoi gendarmi). E, d’altro canto, non è neppure questa l’ambizione di un accordo che, oltretutto, non sarà vincolante nemmeno per gli Stati firmatari. Esattamente come è avvenuto per l’Unione Europea, a oggi l’esperienza più avanzata di libera circolazione a livello internazionale, l’ammorbidimento delle frontiere implica una significativa riduzione dei gap tra paesi, e in special modo tra paesi geograficamente vicini. Altrimenti l’immigrazione finisce col costituire, per chi parte, la sola alternativa possibile – indipendentemente dal suo prezzo, che è spesso la vita, come documenta la drammatica contabilità dei morti lungo il tragitto, di cui Dio ci chiederà conto indipendentemente dal fatto che si permetta o meno a una nave di attraccare – e, per chi 'accoglie', un fenomeno da prevenire, contrastare e contenere.

Uno dei punti più qualificanti della proposta di Global Compact è, al riguardo, la sollecitazione a inquadrare la gestione delle migrazioni negli obiettivi di sviluppo sostenibile definiti da Agenda 2030. Ed è questo punto che dovrebbe impegnare soprattutto gli Stati e le organizzazioni della società civile. Come insegna il Magistero della Chiesa, il fenomeno delle migrazioni – tanto più quando si manifesta in forme opposte a quelle auspicate dal Global Compact, ovvero disordinate, insicure e irregolari – interpella molteplici livelli di responsabilità. La comunità internazionale certamente, chiamata a colmare la mancanza di un apparato di regolazione che protegga i movimenti delle persone almeno quanto quelli dei beni e dei capitali. I paesi del 'Nord' globale, che oggi addossano sui paesi più poveri le maggiori responsabilità sia della protezione di sfollati e rifugiati, sia del contrasto all’immigrazione irregolare. Ma anche i governi dei paesi d’origine, spesso del tutto inadempienti al loro dovere di promuovere il diritto a non emigrare, prima ancora di quello a emigrare. E, non da ultimo, l’intera società civile, il mondo delle imprese e quello dei consumatori che, attraverso le loro scelte quotidiane concorrono, in maniera più o meno consapevole, all’affermazione di logiche predatorie – con la loro inevitabile produzione di 'scarti umani' e guerre tra poveri – piuttosto che alla costruzione di modelli di sviluppo equi, inclusivi e sostenibili. Temi come quelli del commercio delle armi, dell’eticizzazione delle scelte di investimento e risparmio, di un’economia inclusiva e attenta agli impatti ambientali dei processi, della lotta al caporalato, della gestione dei rifiuti (solo per citarne alcuni), cui questo giornale dedica particolare attenzione, sono altrettanti aspetti cruciali rispetto al futuro della mobilità umana. Sostenere l’adesione al patto globale dovrebbe voler dire impegnarsi con determinazione su tutti questi fronti, non solo su quello dell’accoglienza ai migranti.

D'altro canto, se l’obiettivo auspicato deve essere quello di una reale eticizzazione delle politiche e delle pratiche migratorie, occorre essere disponibili a misurarsi anche con alcuni lati 'oscuri' della mobilità umana nell’epoca contemporanea. Quello, ad esempio, di modelli e culture migratorie che sottraggono ai paesi del 'Sud' del mondo le risorse più giovani, istruite e intraprendenti; che hanno piegato le istituzioni formative di alcuni paesi alle esigenze dei principali paesi importatori di 'cervelli' più che a quelle dello sviluppo endogeno; che hanno addossato sui migranti l’onere di mantenere, attraverso le loro rimesse, intere famiglie e comunità locali, sgravando le stesse autorità di governo dell’onere di promuovere adeguate opportunità di vita e di lavoro; che hanno, infine, portato a investire propri i più vulnerabili – come i minori non accompagnati – del cogente mandato familiare di trovare al più presto un lavoro. Di nuovo, oltre che sul dovere dell’accoglienza, una governance della mobilità umana che abbia a cuore la dignità della persona e lo sviluppo sostenibile deve 'prendere per le corna' tutti questi aspetti.

Da ultimo, non possiamo esimerci dal confrontarci con la distinzione tra migranti forzati e migranti economici. Una distinzione resa sempre più indeterminata e porosa dall’ampliamento degli squilibri nella distribuzione della ricchezza e delle opportunità, dalla involuzione del quadro geo-politico, dall’aggravamento della questione ambientale. Ma resa più indeterminata e porosa anche da un ricorso 'disinvolto' alla richiesta di asilo, divenuta lo strumento per aggirare i vincoli all’immigrazione economica, nel quadro di regimi migratori non solo restrittivi, ma anche sempre più selettivi (ovvero sempre più impenetrabili per chi proviene dai paesi più poveri, per chi è meno istruito e qualificato, per chi ha meno mezzi economici e personali). E tuttavia, per quanto discutibile e discussa, questa distinzione deve costituire quanto meno un monito rispetto al rischio che il diritto alla mobilità venga definitivamente subordinato alle logiche della convenienza. Le istanze di sostenibilità impongono di superare gli approcci assistenzialistici anche nella gestione dei migranti umanitari (come ha segnalato in questi giorni l’Alto Commissario Unhcr), favorendone la rapida inclusione lavorativa e la valorizzazione del potenziale. Ma senza mai perdere di vista che i sistemi di protezione devono avere, come prima e fondamentale missione, quella, appunto, di proteggere; e di proteggere in primo luogo i più vulnerabili, non certo i più produttivi. Ovvero col coraggio di affermare che alcune cose vanno fatte non perché sono politicamente od economicamente vantaggiose, ma semplicemente perché sono le cose giuste da fare.

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