sabato 5 settembre 2015
​Paese diviso sulla rinuncia al pacifismo costituzionale. (Stefano Vecchia)
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La celebrazione il 3 settembre del 70° anniversario della vittoria dei cinesi sul Giappone, con la poderosa parata militare in piazza Tienanmen e un discorso del presidente Xi Jinping che ha proclamato la volontà di pace della Repubblica popolare cinese sottolineando le potenzialità e le ambizioni delle sue forze armate, hanno forse ricompattato i cinesi attorno alla loro leadership in un tempo ricco di incognite, ma sicuramente non hanno tranquillizzato il dirimpettaio giapponese. Tokyo, che il giorno prima aveva dovuto ricordare in modo assai più intimo i settant’anni dalla firma della resa agli Alleati, ha da tempo nel riarmo cinese ragioni e pretesti per il proprio. La Camera dei Deputati del Parlamento di Tokyo ha approvato il 16 luglio le nuove Leggi sulla sicurezza nazionale che prevedono anche la possibilità di utilizzare le forze armate giapponesi in iniziative belliche al di fuori del territorio nazionale. In sostanza, allineando il Paese a molti altri, ma in contrasto con la sua tradizione postbellica garantita dall’articolo 9 della Costituzione che il governo non è in grado tutt’ora di modificare data la complessità del processo di revisione e dei rischi politici che comporta.   Tali provvedimenti rappresentano una rottura evidente con valori e con un sentire comune ancora diffusi e, non a caso, l’approvazione è stata accompagnata nelle strade di Tokyo dalla protesta di migliaia di cittadini che ha ricordato quella che nel 1960 costrinse il nonno dell’attuale premier Shinzo Abe, Nobosuke Kishi, a dimettersi dopo che aveva fatto passare, pure con procedura d’urgenza, il patto di sicurezza Giappone-Usa. I documenti ora in transito al Senato per l’approvazione definitiva sono contraddittori: invisi a molti e potenzialmente anticostituzionali, forzati per un passaggio rapido come strumento di affrancamento da una Costituzione scritta dagli americani, consentiranno a Tokyo di partecipare alle vicende strategiche e – potenzialmente – belliche del suo principale alleato. In realtà, il nazionalismo nipponico ha uno stimolo di tutto rispetto nel potenziale bellico cinese, difficilmente contrastabile in un futuro non lontano. La minaccia nordcoreana, per quanto più prossima, viene vista come ridotta per i limiti del regime di Pyongyang e perché la reazione sarebbe immediata, corale e devastante. I danni sarebbero considerevoli ma non letali.   La crescita di un ideale di prestigio che va di pari passo con revisionismo storico e volontà di oblio ha diverse motivazioni. La prima nella necessità, peraltro sollecitata da molti negli ultimi decenni, alleati inclusi, di un ruolo non più da comparsa ma almeno da comprimario sulla scena regionale e globale. Tokyo ha scelto forse il momento meno opportuno, andando a collidere con una uguale, se non maggiore, ambizione cinese, e questo rappresenta un rischio considerevole. La seconda motivazione riguarda le opportunità della politica, con un Partito liberal-democratico (Pld) che si è riappropriato del potere, proprio per quasi un sessantennio, dopo una tribolata parentesi a guida democratica, anche sull’onda dello tsunami del marzo 2011 e delle sue conseguenze.  Esperienza, ampie possibilità di manovra economica, consenso di burocrazia, finanza e grande industria hanno fatto del Pld un attore indispensabile di tutto il dopoguerra, ma occorreva un elemento che raccordasse se stesso e la convinzione della popolazione a dare uno spazio alla terza motivazione, ovvero alle potenzialità della sua industria bellica, tra le più evolute al mondo ma finora relegata a ruolo di produttore per le Forze di autodifesa. Questo elemento di raccordo è il nazionalismo, che serve alla perfezione tutti e tre i punti e pure l’agenda governativa. Inoltre, la constatazione che, mancando di nucleare, il Giappone deve importare la quasi totalità delle sue risorse energetiche sta spingendo alla riapertura delle centrali, nonostante concreti timori per la sicurezza degli abitanti dopo la crisi di Fukushima. A ciò si somma l’affermazione di una coscienza che vede nell’autonomia bellica, spendibile anche in campo internazionale, uno dei motori indispensabili al Paese. In questo modo il Giappone si affrancherebbe anche dalla giurisdizione Usa, utile ma lesiva dell’orgoglio nazionale. Insomma, apparentemente è qualcosa di simile al ritorno, almeno in alcuni ambiti, all’ideologia militarista che ha portato il Paese del Sol Levante prima a porsi alla pari con le potenze occidentali, sconfiggendo l’Impero cinese nel 1895 e quello russo nel 1905, poi alle guerre d’aggressione contro le nazioni vicine e infine, con l’attacco a Pearl Harbor, a tentare il dominio mondiale insieme alla Germania nazista e all’Italia fascista.   Il contesto storico e strategico è però molto diverso. Tokyo è oggi una democrazia, integrata in patti e alleanze – con una sua credibilità garantita proprio dal pacifismo costituzionale –, è terza potenza economica del Pianeta, risulta partner generoso nella concessione di crediti e fondi per lo sviluppo. I vicini con cui sono aperti contenziosi territoriali e anche ferite mai o mal rimarginate sono sia alleati commerciali (Cina, Taiwan, buona parte delle nazioni del Sud-est asiatico) sia partner strategici (Corea del Sud, Filippine). Paesi che, pur alzando la voce e a volte facendo alzare anche i loro intercettori, come pure fa Tokyo, alla fine chiedono al Giappone una cosa precisa: scuse senza tentennamenti e distinguo per le responsabilità del passato e – in certi casi – anche congrui indennizzi alle vittime. La devastazione del conflitto, l’olocausto nucleare, la sconfitta e l’occupazione alleata – secondo le parole contenute nel messaggio dei vescovi giapponesi in vista del 15 agosto, ricorrenza del messaggio di resa dell’imperatore – «hanno fatto nascere il desiderio di pace pace codificato nella Costituzione promulgata nel 1946». Tuttavia, hanno sottolineato i presuli, «settant’anni dopo il conflitto, la sua memoria sta svanendo, insieme con la memoria della dominazione coloniale giapponese e la sua aggressione accompagnata da crimini contro l’umanità». Contrariamente alla Germania, il Giappone ha sempre usato toni sfumati per parlare del proprio passato. La storia sui libri di testo ha ampi spazi di autocensura ufficiale e di oblio nazionale. Mancano così una rielaborazione della memoria, l’accettazione delle responsabilità e delle conseguenze, mentre è piena e persistente la coscienza dell’olocausto nucleare provocato dall’odierno alleato statunitense.   Il fronte pacifista è ampio ma poco omogeneo, nonostante prestigiose partecipazioni, come quella del Premio Nobel per la Letteratura Oe Kenzaburo e di Hayao Miyazaki, capofila del cinema d’animazione nipponico. Proprio Miyazaki ha chiesto al premier di porgere chiaramente le scuse del Giappone per il passato bellicista. Resta aperto e chiama una soluzione urgente il rapporto con il colosso cinese. Al di là delle retoriche nazionaliste, i rapporti bilaterali sembrano avere acquisito un accento più disteso nei mesi successivi all’incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e Shinzo Abe nel contesto del Vertice Asia-Pacifico di Pechino lo scorso novembre. Entrambi i Paesi si trovano davanti a sfide di stabilizzazione, di ruolo e di disponibilità di risorse che richiedono un attento bilanciamento tra le esigenze particolari e gli interessi comuni. Nonostante tutto, cresce la possibilità di un incontro formale tra Xi e Abe entro l’anno, ormai trascorso il tempo in cui il ricordo del conflitto ha alimentato non solo memoria e volontà di pace, ma anche tensioni espresse a vari livelli di intensità.
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