martedì 29 marzo 2011
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Lampedusa scoppia. "Basta, siamo pieni", recitava uno degli striscioni issati ieri nel porto. Comprensibile l’esasperazione degli abitanti: in pochi giorni sono diventati "minoranza numerica" nella loro terra, la sindrome dell’invasione cresce e la prospettiva di un esodo dal Nordafrica che sembra solo all’inizio non è certo rassicurante. Ieri è arrivato l’annuncio del commissario straordinario per l’emergenza, Giuseppe Caruso, che ha promesso per domani l’invio di sei navi al fine di svuotare l’isola dai migranti. Probabilmente l’effetto-annuncio non basterà a calmare tutti gli animi, perché dopo le promesse che si sono succedute i fatti sono attesi al varco.Quanto accade è la testimonianza plastica e insieme drammatica che l’immigrazione, se non è governata, viene subìta. E che in questa vicenda tutto si tiene, come insegna il principio dei vasi comunicanti. Non si può certo imputare ai lampedusani una mancanza di sensibilità nei confronti di quanti arrivano dal Nordafrica: da anni, pur dovendo fare i conti con la carenza di servizi e strutture, testimoniano capacità di accoglienza e generosità, ma l’esasperazione a cui sono arrivati in questi giorni ha spinto a gesti estremi come è accaduto ieri, quando un gruppo di pescatori si è impadronito dei barconi da cui erano scesi i migranti, li ha collegati tra loro con cavi d’acciaio e li ha schierati all’imboccatura del porto. Un piccolo "blocco navale" che ha trasformato i mezzi utilizzati per arrivare sulla sponda nord del Mediterraneo in altrettanti ostacoli per bloccare nuovi sbarchi.Tutto si tiene, dicevamo, come insegna il principio dei vasi comunicanti. I migranti evacuati da Lampedusa verranno smistati in tendopoli, caserme e aree dismesse disseminate sul territorio nazionale, chiamando in causa le autorità locali, sfidate a sostenere un esame di maturità. Provocatoriamente (ma non troppo) si potrebbe considerare la vicenda come una cartina di tornasole delle dichiarazioni risuonate in occasione della recente festa dell’unità nazionale, quando un sentimento di "appartenenza" e coesione – per certi versi inaspettato – sembrava avere pervaso l’Italia. L’emergenza con cui ci dobbiamo misurare mette alla prova il reale spessore di una parola come "responsabilità", sulla quale pesa il rischio della retorica ma che rimane quantomai indicativa della statura morale di una società, come ha avvertito ieri il cardinale Bagnasco nella prolusione al Consiglio permanente della Cei.Peraltro gli accadimenti che premono da oltremare ci dicono che l’ora della responsabilità è suonata anche per la Ue, finora troppo latitante e generica nell’assumere impegni concreti che affianchino il nostro Paese, destinato dalla geografia a recitare il ruolo di porta d’ingresso in Europa. Gli impegni che l’Unione deve assumere non possono limitarsi a co-finanziare il colossale apparato di prima accoglienza che l’Italia deve mettere in campo (le previsioni sugli arrivi causati dalle crisi che si stanno consumando in Nordafrica variano da 50mila a 350mila unità), ma rimandano alla necessità di una politica di cooperazione allo sviluppo che è il vero volano capace di drenare nel medio periodo i flussi migratori. È evidente che se non si metterà in movimento questo volano, Italia ed Europa faranno la magra figura di chi pretende di svuotare il mare con un bicchiere.Gli scenari in continuo mutamento che si susseguono nella sponda meridionale del Mediterraneo riportano d’attualità l’immagine del Mare nostrum, anche se in una prospettiva assai diversa da quella dell’epoca romana: oggi non siamo più i padroni di quelle acque, ma nondimeno esse sono "nostre", ci riguardano molto da vicino, rendono sempre più interdipendenti i destini dei popoli che su quelle acque si affacciano. Gli abitanti di Lampedusa l’hanno capito da tempo sulla loro pelle, gli italiani lo stanno faticosamente capendo. È tempo che anche l’Europa impari a fare suo il principio dei vasi comunicanti.
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