martedì 6 ottobre 2015
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Alla guida di un’automobile ci preoccupiamo dei tempi di percorrenza e del consumo di carburante. L’ottimo è una via di mezzo tra il non dare per niente gas per risparmiare sul costo della benzina, rischiando però di far fermare la vettura o, al contrario, ingolfarla pigiando troppo sul pedale.Per la manovra economica d’autunno il governo è di fronte allo stesso problema dove la "riduzione del debito" rappresenta il consumo di carburante e la velocità di percorrenza è la "crescita". La Ue ha un modello severo di rientro dal debito (il Fiscal compact) che ci chiede di dare solo un filo di gas per risparmiare sul deficit (i costi del carburante). Il governo risponde dicendo che con quel filo di gas la macchina si ferma e il rapporto debito-Pil finisce paradossalmente per crescere. E dunque bisogna dare un po’ più di gas (sgravi fiscali per i neo assunti o per le imprese che si insediano al Sud, tagli di tasse) per far camminare l’economia. La questione sta tutta qui. Perché non possiamo non concordare sul fatto che, come dicono in molti, la riduzione del debito è affar nostro non di altri. E perché sappiamo che il debito non rappresenta soltanto l’eredità che lasciamo alle generazioni future, ma il suo ammontare determina anche l’onere degli interessi che pagheremo nei prossimi anni. Interessi che bruciano risorse pubbliche che invece si potrebbero destinare a utilizzi produttivi o al welfare.Nei mesi passati, rilanciando un documento-appello firmato da chi scrive assieme a molti altri economisti, su queste colonne abbiamo sostenuto che il Fiscal compact (la ricetta Ue che richiede di convergere al pareggio strutturale di bilancio riducendo progressivamente il rapporto debito-Pil che supera il 60%) pecca di un eccesso di rigorismo. Il governo italiano, senza fare teorizzazioni che ritiene politicamente inopportune, ci sta dando ragione nei fatti, chiedendo l’ulteriore rimando del pareggio strutturale. Il che non vuol dire lassismo sfrenato, ma semplicemente limitare il rientro dal deficit di un punto percentuale (il famoso "tesoretto" o "bonus" che Renzi chiede all’Ue) per dare appunto quel filo di gas in più di cui l’economia ha assoluto bisogno per far ripartire il nostro Paese. Parliamo d’altronde di un’Italia che sta facendo i "compiti a casa" e che tiene comunque il deficit sotto il 3% nonostante altri alunni indisciplinati e raccomandati (la Francia) non si facciano scrupolo di violare quella regola.Venendo alle cifre, sappiamo che il governo ha bisogno di 10 miliardi per non far scattare l’aumento dell’Iva (evitando probabili effetti depressivi sui consumi), di 4,8 miliardi per dare attuazione alla proposta di abolizione della Tasi e dell’Imu agricola, di 2 miliardi per sbloccare l’indicizzazione dei contratti degli statali fermi da anni come richiesto dalla Corte Costituzionale. E di altro ancora se vuole continuare la politica di decontribuzione per le nuove assunzioni e per rilanciare con sgravi fiscali gli investimenti al Sud.Per coprire queste spese il governo sta negoziando con Bruxelles un "bonus" pari a poco più dell’1% del Pil (circa 16 miliardi). Composto per lo 0,4% da un "bonus" ottenuto grazie alla realizzazione di alcune riforme strutturali, per lo 0,3% dalle spese di cofinanziamento con risorse nazionali dei fondi strutturali europei e per il restante 0,4% rappresentato da un ulteriore abbuono richiesto per finanziare gli interventi per l’emergenza migranti. A queste risorse si intendono aggiungere quelle dei tagli degli sprechi di spesa pubblica (attraverso la centralizzazione degli acquisti) e delle privatizzazioni. Anche se sappiamo bene che le privatizzazioni sono proventi una tantum sui quali non possiamo fare affidamento in modo strutturale. E che dietro i tagli agli sprechi possono annidarsi in realtà tagli lineari che rischiano di ridurre l’accesso alle cure sanitarie della popolazione, uno dei fiori all’occhiello del nostro sistema Paese che è ai primissimi posti nel mondo per qualità della sanità pubblica e per aspettativa di vita.In un quadro macroeconomico che senz’altro va migliorando, la scelta strategica del governo (se effettivamente attuata) farà sì che per quest’anno il rapporto debito-Pil non inizierà ancora a scendere. Ritardando di un anno, da questo punto di vista, la «svolta buona». Costo più che accettabile, se così si aprirà la via per far ripartire veramente l’Italia, dando una risposta a disoccupazione e povertà.
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