martedì 4 novembre 2014
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«Restituire al Colosseo la sua arena»: è la proposta, affascinante, del Ministro per i Beni Culturali e il Turismo Dario Franceschini. Parto da una premessa: mi fido del ministro Franceschini, uomo meritevole di stima e quindi attendibile. Inoltre comprendo le ragioni della proposta: rendere il Colosseo più vivo, ripristinandone la natura di luogo di incontro e spettacolo. Come avvenne fino alla fine dell’Ottocento. Esistono, però, a mio parere, alcune controindicazioni. Il Colosseo sarebbe davvero più vivo se ospitasse spettacoli, che implicano pubblico silenzioso e concentrato, o non esprime maggiormente la vitalità di Roma, quella di Augusto, quella di oggi, con le folle che quotidianamente lo attraversano, come se fosse, anziché un’arena, una città?  Il fascino di un luogo antico e mitico è la sua forma permanente legata alla memoria di ciò che vi è accaduto. Quando visito un tempio greco immagino il tempo in cui vi si pregava, immagino i greci... ma non mi aspetterei oggi la celebrazione di un rito a Apollo o Artemide. L’interruzione della funzione crea il fascino della memoria. Certo colui che assiste alla rappresentazione di una tragedia greca a Siracusa, rivive lo stato albare e già pieno della nostra civiltà occidentale. Ma è diverso: su quelle pietre sedevano cittadini che assistevano alle visioni portentose di Eschilo, Sofocle, Euripide, alla messa in scena dei massimi problemi dell’uomo: la vita, la morte, l’amore, la guerra. Il Destino. Che quel teatro veda una continuità di rappresentazioni ha un senso. Le tragedie erano rappresentate durante precisi, rituali periodi di festività religiose, duravano ore, lo spettatore, giunto con lo spirito di un pellegrino, soffriva il caldo cocente di Atene o di Siracusa dall’alba al tramonto, non aveva cappellini e non vendevano birre.  Era un luogo religioso, il teatro greco, il tempio della poesia parlante alla polis, luogo della parola e della meditazione in forma di spettacolo. Il Colosseo, storicamente, è il simbolo della degradazione del teatro operato dai Romani rispetto ai Greci (quando in altri campi invece i discendenti di Enea, cioè i nostri nonni, li superarono). Dalla riflessione sull’assoluto, sul divino, si passa al circo, in luogo di Prometeo incatenato per amore dell’uomo, del dio che si sacrifica per noi, punito da Zeus, noi vediamo i gladiatori costretti ad ammazzarsi come cani, tra loro, o farsi sbranare dalle belve. Il Colosseo è, nella realtà della storia, il luogo del massacro dei cristiani. Massacro. Quando nel teatro greco l’uomo si interrogava sulla bontà o meno del Divino, sul senso della Vita... A volte poi il Colosseo proponeva spettacoli non a base di sangue, si trattava di divertimenti circensi, con prestigiatori e ballerine orientali... Il poeta Ovidio consiglia caldamente la frequentazione di questi spettacoli al giovane che si sta istruendo all’arte amatoria. Suggerisce come comportasi al banchetto, a tavola, e poi a teatro, per divenire un buon seduttore.  Memorie di vita, piene, toccanti, ma che non chiedono una continuazione. Non è mai stato il Colosseo, un luogo del teatro, dello spettacolo nel senso vero della parola. Lasciamolo, forse, alla sua realtà storica di centro dell’urbe, al luogo di folle che convergono, di rumore, di incontri disordinati e casuali. Il teatro, i Romani, non lo fecero lì, in quel grande calderone di chiasso e carnalità. Lo fecero, modificato, nuovo pilastro dell’Occidente, inventando il Diritto, nel Tribunale.
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