Dove porta la giustizia fai-da-te e perché non è mai Bene comune
sabato 31 luglio 2021

Gentile direttore
non voglio riaprire il dibattito sull’uccisione di Voghera, è bene lasciare il compito alla Giustizia, perché i pro e i contro portano a un confronto improduttivo. Mi ha colpito, invece, tra le lettere sul tema alle quali lei ha risposto il 24 luglio scorso quella che parla di «giustizia fai-da-te». Sembra, a leggere, che la giustizia sia un compito demandato solo agli organi giudiziari e di polizia; sembra che non sia un fatto che interessa, e che coinvolge, tutti. Quando assisto a una violazione elementare del bene comune, non posso dire “ci pensi chi ne ha il dovere”, ma devo fare ciò che posso per limitare i danni di un male voluto. Il pover’uomo che è stato ucciso aveva ricevuto alcuni divieti di soggiorno sul territorio nazionale, era già stato affidato ai presìdi sanitari, aveva già ricevuto visite dei carabinieri, ma tutto continuava come prima in violazione della libertà degli altri cittadini. Il problema non si risolve con una pistola in tasca, ma nemmeno dicendo: non è un fatto mio, ci pensino gli altri. Il bene comune ci invita a essere presenti là dove si commette una ingiustizia, perché è nostro dovere riparare il male fatto, e agire perché non si ripeta e questo non solo per l’ordine pubblico, ma per tutti gli aspetti della vita sociale. Quindi modificherei l’enunciato «giustizia fai-da-te» con «agisci per il bene comune».
Giampaolo Zapparoli, Mantova

È giusto, ovviamente, che siano i giudici a valutare le circostanze che hanno portato alla terribile uccisione di un uomo che si chiamava, e si chiama, Youns El Boussetaoui (chiamiamole sempre per nome le vittime, altrimenti finiamo per ucciderle due volte). Detto questo, apprezzo molto il cuore del suo ragionamento, gentile professor Zapparoli. Dobbiamo essere tutti, ognuno per la propria parte, piccola o grande che sia, costruttori di giustizia. E l’impegno ad agire per il Bene comune è indubbiamente alla base della visione cristiana della vita. Soprattutto quando c’è da affrontare il male, consapevoli dei nostri limiti, ma anche di ciò che ci insegna la croce di Cristo – e l’Apostolo ci ricorda (Rm 12, 21) – e cioè che il male si vince col bene, e non moltiplicando il male stesso. Per questo lei e io siamo certi che non si fa il bene andando in giro armati di pistola, e per di più con il colpo in canna, pronti a sparare, a ferire e persino a uccidere.
Nel processo si valuterà tutto, ma è un fatto che a Voghera, per strada, un uomo armato ha ammazzato una persona disarmata, colpevole di “irregolarità” e di “fastidiosa” confusione mentale. Ecco a che cosa ci si riferisce quando viene giustamente, vorrei dire sanamente, evocata la necessità di evitare ogni deriva verso una «giustizia fai-da-te», che come altre vertigini del nostro tempo è tragica espressione di una autoreferenzialità smisurata, libertina e (qualunque bandiera o bandierina si sventoli) indifferente alla vita altrui, sulla quale però si sentenzia e si decide.
Seguo poi l’altra parte del suo ragionamento e resto interdetto, fino a un allarmato disaccordo. Che cosa dovrebbe fare un buon cittadino degli esseri umani “irregolari” presenti sul patrio suolo? Trascinarli al confine e sbatterli fuori dall’Italia? Ma chi deciderebbe della “irregolarità” da prendere per la collottola (o a pistolettate)? Chi, mettendosi accanto e addirittura prima delle autorità di pubblica sicurezza e della magistratura, potrebbe arrogarsi il compito di proclamare una condizione di “clandestinità” da foglio di via sulla terra che tutti noi, ovunque siamo nati sotto al cielo di Dio, camminiamo da viandanti? Sarebbe forse Bene comune precipitare in un far west dove ci si sente in dovere di tuonare (e detonare) intimando il fatidico: “Fuori, straniero, dalla mia città”? Non credo che lei, gentile amico, lo pensi davvero. E personalmente penso che consentire a una legge tale catalogazione dell’umanità, pur in parte comprensibile, ha già in sé una grave dose di azzardo morale, e penso che permettere un simile esercizio a un cittadino, autorizzandolo moralmente a prendere di mira un altro essere umano, è semplicemente inconcepibile. In ogni caso, poi, mi lasci ripetere ancora una volta che, sebbene io non ami i monopòli, riconosco volentieri alle Forze dell’ordine il monopolio dell’uso (misurato e sorvegliato) delle armi.
Concludo con una constatazione. La «giustizia fai-da-te» a mano armata fa sempre almeno tre vittime: 1) ovviamente la persona che viene bersagliata, e chi a quella vittima è legato; 2) la persona che colpisce (e anche i suoi familiari), perché quel fatto di sangue – che lo si ammetta o meno come colpa – resterà comunque inciso nella memoria e nella coscienza; 3) la comunità di cui si è parte, perché la morte inferta è un choc collettivo ed è sempre un atto di follia fratricida, che proviamo a rimuovere o magari a mitizzare, ma che ha peso schiacciante e inesorabile.
Non vorrei mai essere nella pelle di chi “si fa giustizia”. E non per la possibile punizione legale, ma proprio per il peso del sangue versato. Che è Bene comune solo quando è sangue nostro ed è offerto per amore.


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