«Il debito non è necessariamente cattivo. Ad esempio, la Gran Bretagna esce dalla Seconda guerra mondiale con un debito che era oltre il 220 per cento del Pil, doppio rispetto al nostro di oggi. Ma ha lasciato ai nipoti un paese libero, non invaso da Hitler. E poi, in un paio di generazioni, hanno ripagato tutto. Senza contare che questo debito è stato investito per far crescere rapidamente l’economia britannica».
Di chi sono queste parole? Le ha pronunciate Francesco Giavazzi, tra gli economisti più in vista nel nostro Paese, bocconiano, stretto collaboratore di Mario Draghi e del “Piano sul futuro della competitività europea”, fu autore nel 2007 del discusso volume Il liberismo è di sinistra. Giavazzi, che si è espresso in un dibattito a Cortina nei primi giorni del nuovo anno, ha anche aggiunto che «se non facciamo debito pubblico, la difesa non la facciamo e ci dimentichiamo anche la transizione verde».
Al di là del merito della spesa militare sulla quale si possono avere opinioni diverse sul piano etico, dal punto di vista economico il ragionamento non fa una piega. Sono in molti ormai a ritenere che l’austerità non porta a nulla, anzi peggiora le cose: la realtà ha spiegato che non regge l’idea che tagliando la spesa pubblica il Pil è destinato a crescere, cioè che funzioni la cosiddetta austerità espansiva.
Si ricorderà il naufragio della tesi dei due economisti Reinhart e Rogoff, secondo cui in presenza di un debito oltre il 90 per cento del Pil si realizzerebbe un declino della crescita. Prima due studenti impertinenti, muniti di foglio Excel, trovarono falle nei numeri, poi nel 2021 l’economista austriaco Phillipp Heimberger ha passato in rassegna 828 studi che mettevano in relazione debito e crescita e, al netto dei criteri di selettività delle riviste, trovò conferme: il debito non ostacola la crescita.
La fine di un tabù? Certo nessuno ama rilanciare semplicisticamente la teoria delle buche scavate e poi riempite per far camminare l’economia. Nemmeno gli sprechi e la cattiva gestione delle finanze pubbliche. Tuttavia la meccanica keynesiana, ormai si può dire, ha funzionato nel corso del corrente secolo almeno in tre circostanze quando i governanti non poterono far altro che ispirarsi a John Maynard Keynes.
Così è avvenuto dopo la crisi del 2007-2008 quando il mondo era in recessione e Obama nel 2009 lanciò l’American Recovery Act da 787 miliardi di dollari. Nemmeno dodici anni e l’economia mondiale fu “spenta” dal Covid da un giorno all’altro: Biden per rimetterla in moto ci ha buttato dentro 3.900 miliardi (American Rescue Plan da 1.900, Infrastructure Job Act da 1.200 e l’Ira da 740). Anche l’Europa è dovuta ricorrere alla spesa pubblica ed emettere debito in comune: che non è altro che la manovra keynesiana da 750 miliardi del Next Generation.
Oggi il debito serve di nuovo, soprattutto per l’emergenza climatica e per la transizione digitale. Serve, come hanno calcolato l’Fmi e la Commissione europea, circa il 4-5 per cento del Pil all’anno, una cifra intorno agli 800 miliardi di euro. Di qui l’idea di replicare il Next Generation e lanciare un nuovo debito pubblico europeo. La proposta emerge dal “Piano sulla competitività” di Mario Draghi, del resto fu proprio l’ex presidente della Bce a scrivere sul Financial Times del marzo del 2020 che bisognava usare il debito per uscire dalla crisi e qualche mese dopo, al Meeting di Rimini, coniò la celebre differenza tra il debito “buono” e “cattivo”.
Ora la questione si fa più urgente. Due giganti come la Cina e la Germania segnano il passo, segnalano bassi consumi interni e recessione e, come è noto, la imminente guerra dei dazi di Trump ostacolerà le loro politiche orientante all’export. Saranno disposte, Berlino e Pechino, ad aumentare il debito e a fare da locomotiva agli altri Paesi industrializzati?
Resterebbe la questione dei mercati. Le agenzie di rating sono sempre in agguato. La furia della speculazione si può scatenare, come avvisano le scaramucce su Francia e Gran Bretagna. Bisogna tuttavia ricordare che l’ombrello della Bce oggi è più forte e che l’equazione che salva il debito è quella della sostenibilità: anche il più cattivo dei creditori se il Pil cresce preferisce mantenere in vita il proprio debitore soprattutto se produce reddito sufficiente a pagare gli interessi.
Per questo oggi l’unica strada per perseguire il bene comune è investire con cura, in modo produttivo, le risorse che prendiamo a prestito.

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