lunedì 31 marzo 2014
Via dalla Torre degli imperi: dispersi e salvati
di Luigino Bruni
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Dopo l’Arca gli uomini costruirono Babele, una città fortificata con al centro un’alta torre. Il libro della Genesi (6,15) ci dice le dimensioni dell’arca di Noè (132 metri di lunghezza, 22 in larghezza, 13 in profondità), mentre di Babele dice solo che la cima della torre avrebbe voluto toccare il cielo (11,4). Partendo da questa indicazione, alcune tradizioni antiche hanno immaginato altezze grandiose per quella torre (forse sulla base di ricordi delle piramidi di Egitto, o della gigantesca ziqqurat di Babilonia), molto maggiori di quelle dell’arca che aveva salvato i padri e le madri dei costruttori di Babele. Le imprese di chi costruisce per ascoltare una chiamata e salvare non sono, in genere, più alte e potenti delle imprese di chi costruisce per creare imperi.Sono molti i significati che si sono nel tempo stratificati sopra Babele, che vanno rintracciati nell’esilio babilonese (Babel), nei ricordi dei “mattoni” della schiavitù d’Egitto («Facciamo dei mattoni», 11,3), e nell’eterna critica all’idolatria («facciamoci un nome», 11,4).
La storia di Babele racchiude una critica radicale a ogni impero, e quindi al potere. Del fondatore di Babele (Nimrod), la Genesi dice: «Costui fu il primo a divenire potente sulla terra» (10,8). Babele è simbolo della città fortificata, ma soprattutto è simbolo dell’impero. Non è una critica radicale a ogni potere (anche l’Adam e Noè hanno potere), ma al potere che non è usato per salvare. Anche oggi il potere salvifico di Noè e quello degli imperi di Babele continuano a convivere l’uno accanto all’altro, a intrecciarsi nelle nostre città e istituzioni. C’è chi usa il potere che ha ricevuto dai cittadini o dagli azionisti all’interno di un patto-alleanza (politico, economico, famigliare, educativo...) per una salvezza, e chi invece lo usa per dominare e per estrarre rendite e privilegi – l’impero. C’è un potere che salva e un potere che uccide; e li troviamo spesso, quasi sempre, coabitanti nelle stesse organizzazioni, istituzioni, imprese, a volte negli stessi dipartimenti e persino negli stessi uffici, dove i costruttori di arche stanno seduti accanto ai costruttori di Babele.
Il confronto Noè-Babele ci dona però altre parole e altri messaggi di vita. Innanzitutto sul lavoro. Sia i costruttori dell’arca sia quelli della città-torre erano lavoratori, ed erano tra di loro solidali – senza una forma di solidarietà lavorativa non si inizia nessuna opera, né quelle giuste né quelle sbagliate. Questa solidarietà appare con forza nella storia di Babele, perché qui è esplicita un’azione collettiva, un’opera di un gruppo, una comunità di lavoro: «Si dissero l’un l’altro: “Andiamo. Costruiamoci una città e una torre”» (11,4). C’è un «andiamo», un incoraggiamento e un’esortazione reciproci in vista della costruzione di un’opera. Non tutte le solidarietà e le cooperazioni sono buone, e non tutti i lavori sono cose buone: il lavoro dei muratori e degli ingegneri di Babele non è un lavoro benedetto, e viene disperso. Ci sono lavori che è bene che vadano dispersi. I lavori creati oggi dai potentissimi imperi delle mafie, della pornografia, dell’azzardo, delle imprese che avvelenano, delle guerre, della prostituzione, non sono lavori benedetti, e dobbiamo disperderli. I lavori degli imperi sono lavori di schiavi, ieri e oggi: cambiano le forme delle schiavitù e degli imperi, ma identici restano i loro segni e i loro frutti.
L’errore radicale di Babele fu cercare la salvezza chiudendosi tra simili: tutti avevano «un’unica lingua e uniche parole» (11,1). La città-torre fu edificata «per non disperderci sulla superficie di tutta la terra» (11,4). Il disperdersi era proprio quanto comandato ai salvati dal diluvio: «Brulicate sulla terra, e moltiplicatevi in essa» (9,7). E invece muovendosi verso oriente la comunità umana giunse in una valle e lì si fermò (11.2): cercarono la salvezza non in un andare, ma in un sostare al riparo dal rischio delle molteplicità e della vita pullulante. Quella comunità umana fece una torre-impero (11.4) perché già (11,1) parlava una sola lingua e avevano tutti le stesse parole: è l’unica lingua – l’unico “labbro” – che produce la fortificazione di Babele. La costruzione degli imperi è l’atto ultimo di gruppi umani che perdono biodiversità, che si appiattiscono su un unico linguaggio, quando la lingua e il pensiero si impoveriscono, diventano un “uno” non dopo il molteplice ma prima, una unità che nega la diversità.
L’errore grave di Babele fu allora pensare che la salvezza si trovasse nella creazione di alte mura, nel dar vita a una comunità cum-moenia (mura comuni) che smarrisce il cum-munus (doni-obblighi reciproci). La nostra storia è sempre stata un alternarsi e un intersecarsi di città-mura e di città-doni, ma quando le mura hanno ucciso i doni non sono stati giorni felici per le civiltà.Dio interviene allora per salvare gli abitanti di Babele da una pseudo-salvezza. Anche Babele è una storia di salvezza: JHWJ continua, ostinatamente, a salvare un’umanità che, ostinatamente, continua a volersi salvare nei modi e nei luoghi sbagliati.
Con l’arca la salvezza arrivò con una costruzione, a Babele la salvezza nacque da una distruzione, da una dispersione. La prima dispersione salvifica accade nelle famiglie, che salvano i figli quando li mettono nelle condizioni di “disperdersi” nel mondo, li fanno volare e non li “consumano” in rapporti “incestuosi”. Molte imprese si salvano perché sono capaci di fermarsi di fronte alla tentazione dell’impero, non si arroccano nei tempi delle crisi ma sanno rilanciare il cammino e affrontano il rischio dell’esplorazione di territori ignoti. Molte comunità (e, ancora, molte imprese) si salvano quando i loro dirigenti non cadono nella tentazione di circondarsi di simili nella lingua e nelle parole, espellendo i parlanti altri linguaggi; o quando capiscono in tempo di non dover continuare a crescere in “altezza” e potenza, e hanno la sapienza e il coraggio di “disperdere” pezzi di impero. Per poi ricominciare, liberi e benedetti, a camminare verso una terra. Il grande messaggio del mito di Babele è allora l’invito a non cadere nelle trappole del comunitarismo (la patologia della comunità), rinchiusi dentro mura custodi di non-diversità.
La benedizione-feconda sta nel popolare nuovi mondi, nella varietà e biodiversità delle lingue, e quindi delle culture, dei talenti, delle vocazioni. La corolla del fiore è feconda quando disperde le proprie spore. La tentazione di Babele arriva puntuale quando si è usciti da diluvi o se ne temono altri. Invece di disperdersi, uscire, guardare avanti con speranza a attorno a sé, invece di cercare alleati tra i diversi per scambi e incontri di mutuo vantaggio, si lascia la tenda e si costruisce la torre. Ma in quelle torri non nascono i figli. È la tenda la buona casa dell’umano. Oggi in Europa, nei tempi del post (o pre?) diluvio, sta tornando la tentazione di Babele. E dobbiamo sperare ancora in una dispersione salvifica. Nella valle di Babele gli uomini non capirono che il “cielo” da raggiungere non stava in alto ma stava di fronte a loro, nella strada verso il molteplice. Non compresero che una povera tenda nomade è più forte di una torre alta come il cielo.
Fuori dall’Eden, nel giardino della storia, una sola lingua è insufficiente per dire parole di vita. Al bisogno di unità e alla saudade di “casa” non si risponde negando le dispersioni nel molteplice, ma incontrandole e accogliendole. La nuova lingua dell’Adam non la troveremo tornando indietro o fermando la storia dentro torri di simili; la potremo ritrovare solo camminando dietro una voce, un arcobaleno, una stella, un arameo errante.
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