Il capolavoro, un dubbio e la migrazione del valore
venerdì 17 novembre 2017

Mancano meno di due anni al cinquecentenario della morte di Leonardo da Vinci. Potete scommetterci che sarà un crescendo di notizie, iniziative, mostre, nuove attribuzioni e magari anche scoperte di manoscritti e di idee di uno dei geni più poliedrici della storia umana. Intanto, ieri la clamorosa notizia che il Salvator Mundi di collezione privata, emerso quasi dal nulla nel 2011 e attribuito a Leonardo col parere favorevole di quattro studiosi, è stato venduto in un’asta di Christie’s per la stratosferica somma di 450 milioni di dollari.

Perché stupirsi? Se fosse davvero un quadro di Leonardo, potremmo dire che la cifra, sebbene sia un record assoluto, è da considerarsi sotto stimata rispetto a quello che si è soliti affermare di un capolavoro di questo genere: inestimabile. Che vuol dire: rarissimo, bellissimo, irraggiungibile per ciò che esprime e comunica, insomma un bene dell’umanità che dovrebbe essere visibile a chiunque lo voglia (la Gioconda, allora, quanto varrebbe: un miliardo di dollari? Dieci, cento, mille? Inestimabile vuol dire questo: non poter attribuire un prezzo a qualcosa che, se venisse perduto o tolto al godimento di tutti, procurerebbe un vulnus irrimediabile all’umanità). Ma, appunto, il Salvator Mundi oggi “vale” 450 milioni di dollari (intanto, già ieri mattina la scheda del dipinto pubblicata su Wikipedia dava l’aggiornamento del valore raggiunto in asta.

Che rapidità! Quanta fretta, verrebbe da dire). A proposito della cifra spuntata dall’opera attribuita a Leonardo, se in valori assoluti è il picco mai raggiunto in un’asta, nondimeno è – mi pare – meno sorprendente dei 300 milioni di dollari pagati nel 2015 per l’opera Interchange di Willem de Kooning, il grande maestro dell’espressionismo astratto americano: grande ma, per ragioni di verifica storica ancora aperta, non paragonabile al valore di un’opera autentica di Leonardo.

Forse, la sproporzione sarebbe minore pensando ai 179 milioni di dollari delle Donne di Algeri di Picasso (venduto nel 2015), perché è abbastanza certo che il maestro di Malaga sia uno dei due o tre campioni del Novecento. Ma come giustificare invece i 110 milioni di dollari per il quadro Senza titolo (un teschio dai colori squillanti) di Jean-Michel Basquiat? Gli anni Ottanta del secolo scorso ci avevano strabiliato coi record dei dipinti di Van Gogh, cifre che facevano tremare le vene dei polsi: cento miliardi di lire...

E a comprare erano spesso magnati giapponesi, che oltre Van Gogh stavano acquistando mezza New York. Finì anche quell’epoca e le opere vennero rivendute per far fronte alla caduta dello yen che mise in ginocchio i giapponesi. Sul Salvator Mundi sono opportune alcune considerazioni. L’opera è stata accettata da quattro studiosi, tra cui gli italiani Pietro Marani e Maria Teresa Fiorio, che nel 2015 curarono la mostra di bandiera con cui Milano intendeva accogliere i turisti venuti all’Expo: quella appunto dedicata a Leonardo come emblema del genio italiano.

Come mai i due studiosi non inserirono nella mostra anche il Salvator Mundi? L’opera fu esposta ufficialmente nel 2011, nella mostra leonardesca allestita alla National Gallery di Londra. Ma il quadro era passato sul mercato antiquario qualche anno prima e acquistato per diecimila dollati (!) da un gruppo di galleristi che poi lo fecero pulire: dopo quel restauro venne attribuito al genio di Vinci, anche se inizialmente era stato assegnato con più probabilità alla mano di un suo discepolo (il massimo studioso italiano di Leonardo, Carlo Pedretti, non concorda infatti sull’attribuzione a Leonardo). Il proprietario che ha rimesso in asta il quadro è il russo Dmitrij Rybolovlev, che l’aveva acquistato per 127 milioni di dollari nel 2013.

È necessario aggiungere altro perché sia evidente il tipo di speculazione economica che si cela dietro queste levitazioni d’asta? Nel momento in cui l’antico spuntava valori depressivi (ad andar bene fino a oggi era soltanto il contemporaneo), questo record d’asta produrrà effetti a cascata. Ma il tema decisivo è un altro e riguarda quella che chiamo la “trasmigrazione dell’aura”.

Walter Benjamin sostenne che la riproducibilità tecnica privava l’opera d’arte della sua aura, del suo valore di unicità in soldoni. Profezia giusta e sbagliata al tempo stesso. Oggi l’arte vive di aura riflessa, anche quando è un pezzo unico; è il denaro a imporla sulla scena del mondo e il suo valore non è più legato alla qualità estetica e spirituale dell’opera, ma al suo valore “borsistico”. Il prezzo pagato per il Salvator Mundi sostituisce il giudizio sull’autenticità e sul valore di unicità dell’opera: quale riccone sarebbe tanto pazzo da spendere mezzo miliardo di dollari per un quadro, se non fosse di Leonardo? O si tratta di una scommessa i cui guadagni sono economici e d’immagine per chi col denaro depone la propria aura regale sulla testa dell’opera, la incorona per così dire? Non resta che aspettare la prossima asta, oppure una prova credibile che smentisca l’autografia di Leonardo. In entrambi i casi si produrrà un vero botto (in più o in meno). Auguri agli scommettitori.

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