Il bisogno di Parole rinnovate per la stagione che si apre
domenica 5 gennaio 2020

Un suggerimento per un dono di buon auspicio in questo inizio d’anno: un dizionario etimologico. Etimologia, da étimos, viene dal greco eteos, che significa 'vero', e da una radice sanscrita che significa 'ciò che è'. Ritornare all’etimologia è perciò un movimento di verità, che ci aiuta a far resistenza a tante derive dell’uso del linguaggio che inquinano la sfera pubblica e scolorano o avvelenano la comunicazione e i rapporti tra noi.

Da una parte la tendenza a un 'lavaggio' delle parole, a una loro sterilizzazione che ne fa sbiadire il senso e perdere il sapore, rendendole flessibili a qualunque utilizzo (pensiamo a parole come amore, libertà, popolo...) riducendole così a un insieme di etichette edulcorate, gusci vuoti, bandierine ideologiche. Anche l’appello ai 'valori' in questa prospettiva rischia di ridursi a una stucchevole e vacua retorica: come scriveva Michel de Certeau, «parole svuotate che nascondono il cadavere di ciò che designavano».

Dall’altra parte, trasformare le parole in armi da brandire contro qualcuno, in una schermaglia dialettica il cui unico scopo è prevalere, sconfiggendo e neutralizzando ogni posizione altra, è anch’esso un modo di tradire l’anima simbolica del linguaggio umano. Rischiamo sempre di dimenticare che la parola ci abita, ci convoca, ci lega: dia-legein è rilegare ciò che a uno sguardo superficiale parrebbe irrimediabilmente separato, trovando forme nuove e più alte – per quanto sempre in divenire – di ricomposizione. L’etimologia ci ricorda che sopra le parole si depositano patine che vanno scrostate, perché il potenziale significante torni a brillare. E soprattutto che l’origine ci richiama a quella radicalità della parola che interpella, che «strappa il cielo da est a ovest» (come scriveva Pavel Florenskij); una radicalità che fonda anche un’etica, ponendo un limite alla manipolabilità totale e all’uso strumentale e 'diabolico' – di qualcuno contro qualcun altro.

Perché la parola è invece simbolo, legame e riflesso di nessi profondi di tutto con tutto; e quindi attivatore di connessioni invisibili ma operanti. In fondo è proprio questo il senso della 'universalità' del cattolicesimo: un universalismo concreto, in cui niente si perde, ma tutto viene valorizzato, perché il movimento qualificante non è quello dell’astrazione e della omogeneizzazione ma, con Romano Guardini, dell’«orientamento alla totalità». Una totalità plurale, che non cancella le differenze e le valorizza evitando di trasformarle in motivi di separazione, e che è infinitamente di più della somma della parti: perché la relazione – che è comunicazione e lavoro di comunione – ha un effetto moltiplicatore e genera novità.

Senza dimenticare che proprio per questo suo far cenno verso la totalità, la parola – come direbbe Jan Patocka – ha la sua parte di giorno e la sua parte di notte. Una dimensione, quella notturna, che non può essere mai totalmente illuminata con un bel riflettore rassicurante. La sua rimozione, infatti, produce ritorni perversi. Affacciarsi sul bordo di questa oscurità, di questo mistero, o, con parole più laiche, di questa ambivalenza, ci previene dalla tentazione sempre in agguato della unilateralità, della parzialità, alla fine dell’ideologia. Perché anche l’amore, che è parola bellissima di vita, può trasformarsi nella forza soffocante che uccide, magari dolcemente, se non si riconosce la sua parte di 'notte'.

E la religione, parola di legame tra gli uomini e tra loro e il cielo, può diventare violenza fondamentalista se si pensa che sia solo luce. Ramon Panikkar sosteneva che «se perdiamo il contatto vitale con le radici delle parole, ci travolgerà il vento della tecnocrazia e perderemo ogni identità». Perché non è l’altro, l’altro che si avvicina e non sa 'stare al suo posto' la vera minaccia. Siamo noi i primi a mettere a rischio le radici, se non sapremo rigenerare le nostre parole, complici di un loro uso banale e puramente strumentale.

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