Il Bangladesh povero e la nostra responsabilità
sabato 25 novembre 2017

In ossequio alla scelta preferenziale per gli ultimi che papa Francesco non si stanca di sollecitare, non poteva mancare la sua visita in Bangladesh. E non importa se il 90% della popolazione è di religione musulmana: i diseredati non si distinguono per appartenenza religiosa. Grande metà dell’Italia, ma con una popolazione quasi tripla, il Bangladesh fa parte dei Paesi meno sviluppati. In tutto 47, così definiti dalle Nazioni Unite per la loro fragilità economica, un reddito pro capite inferiore ai 1.200 dollari all’anno, gravi carenze sul piano sanitario, educativo, nutrizionale. In Bangladesh si contano 50 milioni di poveri, il 32% della popolazione, persone che nel linguaggio arido del denaro sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno: non mangiano abbastanza, vivono in baracche fatiscenti, non riescono a curare neanche una dissenteria, non dispongono di corrente elettrica, non possono mandare i propri figli a scuola.

Una condizione che non può essere attribuita solo all’eredità coloniale, ma anche alle ingiustizie interne che si sono perpetuate nel tempo. Il 65% dei bengalesi vive nelle campagne, la loro esistenza dipende dalla disponibilità di terra che però è terribilmente maldistribuita. A causa dell’ignoranza che li rende facili prede di truffe e raggiri e a causa di un apparato giudiziario corrotto, molti piccoli contadini si vedono spogliare dei loro appezzamenti e trasformati in nullatenenti.

A vantaggio dei grandi proprietari terrieri, non più del 10% delle famiglie che possiedono il 50% di tutta la terra. Per contro il 60% delle famiglie rurali è senza terra e ha come unica possibilità di sopravvivenza una simil-mezzadria a condizioni di rapina: in cambio di non più del 40% del raccolto devono partecipare alle spese e non avendo i soldi per sostenerle si indebitano con gli usurai, che infliggono il colpo mortale. Non di rado l’esistenza è ulteriormente aggravata da uragani e tifoni che distruggono tutto ciò che trovano sul loro cammino lasciando dietro di sé intere regioni sott’acqua. Eventi sempre più frequenti come conseguenza dei cambiamenti climatici. Quando la vita nelle campagne si fa impossibile, si cerca rifugio nelle città ed ecco crescere le baraccopoli attorno alle grandi metropoli. Solo a Dacca, la capitale, se ne contano più di 5mila, inferni umani in cui sono ammassate 4 milioni di persone, un quarto della popolazione dell’intera città.

Una di queste è Begunbari, 'Casa delle melanzane', così detta perché sorge lungo i binari che portano al grande mercato ortofrutticolo di Dacca: 25mila persone accampate fra treni in corsa, fogne a cielo aperto, ogni tipo di rifiuti e lordure ammassati ovunque. E nonostante le condizioni disumane, si paga tutto: per insediarsi, per andare alla latrina, per buttarsi addosso un secchio d’acqua a mo’ di doccia. Soldi che ognuno guadagna come può: scaricando un camion, tirando un risciò, accattonando, perfino vendendo il proprio sangue se non c’è nessuna altra possibilità. Ma qualcuno lavora anche presso le fabbriche di abbigliamento che a Dacca sono sorte come funghi negli ultimi decenni. Il governo ha puntato molto sull’industria tessile, in particolare il settore delle confezioni, che oggi rappresenta la spina dorsale dello sviluppo industriale bengalese.

Con 4 milioni di occupati l’abbigliamento contribuisce all’80% delle esportazioni e pone il Bangladesh al secondo posto, dopo la Cina, nella classifica dell’export mondiale. Fra i suoi clienti, ai primi posti compaiono H&M, Walmart, Zara, che si riforniscono in Bangladesh unicamente per i prezzi che spuntano. Talmente bassi da avere potuto lanciare la fast fashion, un nuovo trend consumistico che potremmo riassumere come moda usa-egetta. In realtà a essere usati e gettati non sono i pantaloni, le felpe o le t-shirt, ma le vite dei lavoratori, anzi delle lavoratrici considerato che l’80% delle persone impiegate nei laboratori di cucito sono donne, non di rado accompagnate dai loro bambini. Le loro testimonianze parlano di condizioni di lavoro schiavistiche: 12-15 ore al giorno senza contributi sociali, senza ferie, talvolta senza riposo settimanale.

Il tutto per 60 euro al mese, 65 quando va bene. È il salario minimo legale che a detta dell’Asia Wage Floor Alliance rappresenta appena il 15% del 'salario vivibile' necessario per una famiglia di quattro persone. Nel dicembre 2016, a Dacca venne organizzata una vasta iniziativa sindacale per ottenere salariali più alti, ma gli unici risultati furono 35 arresti, un migliaio di lavoratrici sotto processo e 1.600 licenziamenti. L’esperienza dimostra, però, che dove non arrivano i lavoratori possono i consumatori.

Lo testimonia l’istituzione del fondo per il risarcimento delle vittime del Rana Plaza, il palazzo crollato nel 2013 che provocò la morte di 1.100 lavoratrici e l’invalidità di altrettante. Su pressione dei consumatori, numerose imprese, fra cui Benetton, che intrattenevano rapporti commerciali con i laboratori presenti nel palazzo, hanno accettato di partecipare al fondo, fino a raggiungere l’obiettivo fissato di 30 milioni di dollari necessari a indennizzare le vittime e le loro famiglie. È la dimostrazione che la cultura della responsabilità, assunta da parte di ognuno, è l’unica che può ripristinare giustizia e dignità.

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