venerdì 8 agosto 2014
Proliferano desideri e richieste. Sempre da assecondare?
di Claudio Sartea
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La progressiva centralità del discorso sui diritti è da salutare con sicuro favore. Si tratta in fondo del riscoperto protagonismo della persona umana, che viene prima dei sistemi teorici e di quelli politici, importantissimi, ma proprio perché si collocano al suo servizio: che poi è quel che le matricole delle nostre facoltà di giurisprudenza imparano sin dalle prime ore di lezione, e cioè che il diritto in senso oggettivo esiste in funzione del diritto in senso soggettivo. La riaffermazione della dignità umana, il suo inserirsi a pieno titolo nei documenti giuridici nazionali e sovranazionali a partire dalla seconda metà dello scorso secolo, appare giustamente a tutti come la conquista di una nuova civiltà giuridica e l’avvento, sperabilmente definitivo, dell’età dei diritti (Bobbio), o del diritto di avere diritti (Arendt). Per questo non vi possono essere obiezioni di principio alla riflessione che tanti stanno portando avanti sull’incremento dei diritti degli individui, del loro riconoscimento, dell’effettività della loro garanzia e tutela. Più diritti, più riconoscimento della dignità umana, più possibilità per un numero crescente di persone di vivere una vita più pienamente umana: consapevoli che ciò che ci distingue dai viventi non umani non è tanto il corpo, o l’istinto, o la volontà, bensì la  ragione, la capacità (magari solo astratta e potenziale) di pensare.Proprio per questo è preliminare 'pensare il diritto', vale a dire intendersi molto bene su che cosa esso sia, quale ne sia il fondamento e il senso: altrimenti la crescente rivendicazione e il sempre più assordante – e monotono – ricorso a questa categoria (magari parlando di 'generazioni di diritti', di 'nuovi diritti', o di diritti accompagnati dalle aggettivazioni più fantasiose e bizzarre), invece di migliorare le cose, le rendono ambigue o persino incomprensibili e incomunicabili. Si pensi al caso dell’obiezione di coscienza del personale sanitario all’aborto, rimbalzato con frequenza nei mesi scorsi da un lato all’altro dell’Atlantico come un problema da risolvere: ma risolvere come? Limitandola o negandola, viene detto con crescente determinazione, nel nome del diritto della donna. Soluzione questa però superficiale e difficilmente riconducibile a razionalità, sia perché il diritto della donna è diritto alla salute e non alla soppressione di un’altra vita (questo non può essere mai un diritto, in un ordinamento giuridico democratico che aspiri almeno vagamente alla giustizia: tutt’al più, e con beneficio d’inventario, è pensabile come facoltà depenalizzata a condizioni rigorosamente riconducibili a gravi esigenze di salute); sia perché dall’altra parte della relazione (giuridica, appunto, quindi intessuta di diritti e di doveri) c’è l’operatore sanitario, che non solo ha una coscienza, un’etica, magari una fede, ma anche una professionalità. Di questo complesso intreccio l’ordinamento deve farsi carico, a pena della sua stessa credibilità e tenuta, di principio e di fatto: tuteliamo solo la 'salute' della donna o anche la coscienza e la professione del medico? Siamo sicuri che la salute (o meglio, l’interruzione della gravidanza) della donna, sia sempre e comunque un 'bene' giuridico superiore a quelli protetti dal riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza? Il caso dello scambio di embrioni all’Ospedale Pertini di Roma, di cui molto si sta parlando, mette poi in mostra drammaticamente un’altra sfaccettatura del rapporto tra diritti e doveri, di cui la stessa Corte Costituzionale, con la recente abrogazione del divieto di fecondazione artificiale eterologa, non pare essersi ben resa conto. Al 'diritto' d’integrare il proprio progetto familiare con figli anche quando patologie insormontabili negano questa possibilità di fatto, riconosciuto dalla Consulta nel nome di una discutibilissima analogia tra le situazioni che portano alla provetta omologa e all’eterologa, si contrappongono non solamente le ovvie aspettative dei figli, ma anche – come questo caso ha evidenziato crudelmente – le tensioni derivanti dall’innaturale sdoppiamento delle relazioni procreative, tra coppia committente (in questo caso anche gestante) e coppia generante. Obiettare che si è solo trattato di un errore medico non sposta di molto i termini del dilemma: non solo perché può ripetersi, come ogni altro errore umano, ma soprattutto perché la gravità insolubile delle conseguenze ci costringe a confrontarci con la premessa, che si è rivelata già così vivacemente problematica. È dunque ancora una volta necessario considerare il senso e la funzione dei diritti: che non sono contenitori vuoti da riempire di quel che volta per volta chiedono i singoli, o l’opinione pubblica, o i gruppi più rumorosi e meglio organizzati, bensì schemi relazionali innervati sin dall’inizio da presupposti antropologici e significati sociali. A ogni diritto, come estrinsecazione di una libertà sensata e socialmente posizionata, corrisponde un dovere (individuale o collettivo). E anche così, il titolare della legittima pretesa ha dei limiti nel suo esercizio. Diversamente si abusa del diritto stesso, o si nega il suo carattere sociale. La mera trasformazione di un desiderio o di un bisogno, purché sia, in diritto individuale, è quindi improponibile. E non per estrinseche motivazioni ideologiche o confessionali, ma per la struttura interna del diritto, che esige la corrispondenza della pretesa soggettiva con necessità universali della persona e della sua dignità. Lo dicevamo in esordio: l’ordinamento giuridico è al servizio della persona umana, ma essa è relazionale, familiare, 'politica', non solitaria. Di conseguenza, tutte le spettanze che le si possono/debbono riconoscere, per garantirle pubblicamente, tutelarle, incrementarle, o trovano una giustificazione in bisogni essenziali o non hanno fondamento, e presto o tardi si ritorcono contro la persona umana, come gli esempi confermano. Prima di mettersi a parlare, insomma, di nuovi diritti, o di estendere la categoria del diritto soggettivo, o persino del diritto umano, a qualsiasi nuova rivendicazione più o meno rappresentata a livello statistico, chi ha a cuore l’ordinamento giuridico in funzione della persona dovrebbe fermarsi a riflettere non solo sul senso delle regole ma anche e forse soprattutto sul senso dei diritti, e su come essi derivino dalla dignità umana e siano finalizzati, circolarmente, a promuoverla oltre che a proteggerla. Trasimaco era senza dubbio un giovane generoso e schietto (anche se piuttosto arrogante e vanitoso): ma Socrate ha dedicato tutta  La Repubblica  a convincerlo, con imperitura efficacia, che il giusto non è «l’interesse del più forte», ma se mai il contrario, l’interesse del più debole. Una lezione antica che non viene meno. Anzi.
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