giovedì 4 dicembre 2008
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Caro Direttore,ormai da anni, già alla fine di ottobre, i centri commerciali espongono alberi di Natale, ghirlande, giocattoli con contorno di gaie musichette. Nei giorni dedicati ai morti si rimane sconcertati da questi allestimenti fuori tempo. Alla fine tutta la poesia del Natale si riduce al mercato, al guadagno, alle cose materiali. Per reazione ho deciso, da anni, di non fare più regali. Preparo il mio vecchio presepe, aspetto quella notte santa e prego affinché le cose cambino e si ritorni al vero significato della festa. Ma perché la Chiesa non fa sentire la sua voce?

Maria Antonietta Ceriani

Ogni anno, in questo periodo, ci tocca fare incetta di lettere e di messaggi che denunciano, come lei fa, la deriva consumistica della tradizione natalizia. Da molto tempo «Avvenire» è in prima fila nella lotta culturale a una concezione materialista e a un sistema commerciale che, nella sensibilità comune, finiscono col prosciugare di bellezza, di mistero, di senso questa festa che è il cuore della salvezza cristiana, memoria viva del Dio fatto persona fra noi e per noi. Arduo e fuori luogo sarebbe ripercorrere, qui, i motivi di natura storica e sociale che hanno portato a tale degenerazione che, ora, in piena crisi economica, con la contrazione dei consumi, mostra inevitabilmente la corda. Non tutti i mali, però, vengono per nuocere. Avendo meno soldi per il futile, ci si potrà – forse – soffermare maggiormente sull’essenziale. Chissà che non risulti salutare un po’ di morigeratezza – sia pur imposta da circostanze generali forzose – nei pensieri, nei desideri, nello stile, nei comportamenti, negli acquisti; chissà che non si riesca a recuperare, facendo un po’ più di silenzio e preoccupandosi meno delle compere, il significato vero della incantevole notte santa: la meraviglia e la gratitudine per l’epifania del Salvatore, il quale si mostra nella nostra medesima carnale umanità. Dal riconoscimento di tale dono misterioso e incommensurabile deriva lo spirito di carità che ha sempre caratterizzato il Natale, ricorrenza abbellita dalla consuetudine del regalare (che era in primo luogo un soccorrere i poveri). Consuetudine che non è mai stata una maratona dello shopping, bensì il segno concreto di questa ridondanza e tracimazione d’amore, del quale siamo investiti, e che tramite la nostra persona raggiunge gli altri, anche nel simbolo visibile e tangibile d’un dono materiale, piccolo o grande che sia. Un’usanza di somma bellezza e poesia, che ci rimanda appunto alla gratuità oblativa di Dio, e che fece dire alla scrittrice americana Louisa May Alcott (1832 –1888), l’autrice di "Piccole donne", che «Natale non sarebbe Natale senza un regalo». Le stesse regalìe recate dai Magi al Divin Bambino – oro, incenso, mirra, materie a quel tempo preziosissime, inestimabili – erano segni del riconoscimento della signoria di Cristo sulla vita e sul creato. Nell’era del benessere, purtroppo, questo gesto d’amore tipicamente natalizio ha perso di autenticità, di significato, di portata religiosa, smarrendo il suo ancoraggio a una carità vissuta e riducendosi quindi, troppo spesso, a vuota convezione se non a esibizione di status. Ecco allora che, oggi come oggi, il più grande regalo che possiamo fare ai nostri fratelli e in primis a noi stessi, è ricordarci – con semplicità – quali sono i veri doni che ci porta la stella di Betlemme: verità, amore, gioia, preghiera.

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