mercoledì 11 aprile 2012
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​In un attacco improvviso di euro-follia abbiamo sperato che Monti potesse essere un leader stile Thatcher, pronto a prendere posizione contro un moderno Arthur Scargill...», ammonisce il Wall Street Journal di ieri, che nel far retrocedere Mario Monti al rango di un "qualunque" Edward Heath (il predecessore della Lady di Ferro che si piegò di fronte al sindacato) ci ha inflitto il peggiore dei declassamenti che la cosiddetta Bibbia del capitalismo americano potesse riservare all’Italia.Non c’è da stupirsi né da scandalizzarsi. Voce imperiosa del più intollerante e spietato dei mercati, il quotidiano finanziario americano di norma esulta quando partono raffiche di licenziamenti e, numeri alla mano, dimostra come la redditività delle aziende statunitensi che hanno tagliato posti di lavoro sia aumentata di quasi il 15% dal 2007 a oggi. E poco importa ai signori di Wall Street (e del Wsj)che i dati sull’occupazione siano deludenti e che il tasso di disoccupazione americano veleggi ancora attorno all’8,2%. Il loro bersaglio è e rimane uno solo: il debito sovrano europeo.Archiviata in un baleno l’illusione di scorgere nel premier Monti una replica della Iron Lady britannica, il Wall Street Journal è passato all’attacco, e insieme ad esso il New York Times e il Financial Times, in una salva di artiglieria nei confronti delle banche spagnole e italiane che si fa fatica a non ritenere ben congegnata e alimentata da chi ha il maggior interesse (le banche d’affari americane e inglesi e i Fondi più aggressivi) nel colpire il sistema creditizio dei Paesi più esposti nei confronti della speculazione.Nella fattispecie, la colpa attuale delle banche italiane risiederebbe nel loro portafoglio, esageratamente ricco di titoli del debito pubblico nazionale, soprattutto in considerazione dei forti acquisti effettuati tra novembre e febbraio dopo che la Bce aveva prestato al vantaggiosissimo tasso dell’1% mille miliardi a 800 banche europee. Come dire, senza mezzi termini, che il nostro sistema bancario – è a rischio.I risultati non si sono fatti attendere: crollo delle Borse (Milano su tutte), massiccio spostamento degli acquisti verso i Bund tedeschi, inevitabile rialzo dello spread sui Btp decennali che ha nuovamente toccato la soglia critica dei 400 punti. Esattamente ciò che gli hedge fund e i colossi bancari americani volevano.Non è da oggi che reputiamo (e non soltanto noi: parecchi mesi fa l’Economist dedicò una memorabile copertina alla currency war che si stava profilando) che sia in corso una guerra mondiale delle valute, nella quale l’euro si trova in condizione di relativa debolezza. Scopo fin troppo intuibile, riportare il dollaro a una virtuale parità con l’euro, ma al tempo stesso guadagnare il più possibile sulla fragilità dei titoli di Stato dei Paesi dell’Unione Europea. Il caso greco insegna: un’economia che rappresenta non più del 2,5% del Pil europeo ha fatto da grimaldello (complice l’egoistica miopia germanica) ai più feroci attacchi speculativi dall’epoca dell’offensiva di Soros nei confronti della lira e della sterlina, mettendo a serio rischio l’intera area dell’euro.Su una cosa tuttavia banchieri e analisti d’oltreoceano hanno ragione: l’austerity non favorisce certamente la crescita. Ed è proprio la crescita – una crescita sana e sostenibile – l’unico vero antidoto alle incursioni della grande speculazione internazionale e insieme la vera improrogabile emergenza nazionale. L’unico modo per riattivare quel circolo virtuoso tra banche, imprese, lavoratori e consumatori senza il quale la crescita, la ripresa, l’uscita dalla stagnazione sarebbero soltanto un miraggio inafferrabile. E non è indispensabile ripetere gli errori di Margaret Thatcher per ottenerlo.
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