mercoledì 23 marzo 2016
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Il Belgio e l’attacco, le sottovalutazioni e una lezione È stato fin troppo breve il sollievo per la cattura di Salah Abdeslam. E forse c’è stata una sottovalutazione del rischio che da quel momento di venerdì scorso si era aperto per il Belgio. A quattro giorni dall’arresto di una delle presunte menti degli attacchi di novembre a Parigi, il terrorismo jihadista con base a Bruxelles è riuscito infatti a colpire tragicamente con un’azione coordinata, seminando morte all’aeroporto internazionale e in una centralissima stazione della metropolitana, all’ora di punta mattutina. Una prova ulteriore di quanto siamo esposti agli attacchi kamikaze o alle bombe lasciate in luoghi pubblici affollati, senza che qualsiasi misura di sicurezza possa garantire una vera protezione. Le autorità belghe dovevano essere ben consapevoli del rischio di una rappresaglia e l’allerta sarebbe dovuta essere massima per tutti gli obiettivi sensibili. Eppure, i terroristi hanno potuto agire pochi giorni dopo lo scacco subito con la fine della latitanza di Salah. Resta l’interrogativo sulla scelta del momento dell’attacco. Era già in preparazione ed è stato accelerato dagli eventi, forse per timore che la promessa di collaborazione del super-detenuto portasse a blitz a colpo sicuro della polizia? Oppure, miliziani già decisi al suicidio si sono mossi in fretta per vendetta? O, ancora, dai vertici del Daesh, che prontamente ha rivendicato l’orrore, è partito un ordine preciso per invertire la tendenza che vede lo Stato islamico sempre più indebolito sullo scenario siriano-iracheno? In ogni caso, soltanto chiarita la provenienza degli attentatori si potrà ragionare sulla effettiva possibilità di prevenire, anche grazie all’intelligence, azioni come quelle compiute negli snodi chiave di trasporto della capitale d’Europa. Se, infatti, sono state messe nel mirino infrastrutture da cui transitano tutti gli esponenti politici che siedono negli organismi della Ue, rimane comunque più probabile una motivazione 'locale'. Si è cioè voluta dare una dimostrazione di forza, più che intimidire le istituzioni continentali. 'Siamo qui e possiamo agire quando e come vogliamo', sembra il messaggio implicito nell’onda di distruzione che si è abbattuta su Bruxelles. E, soprattutto, 'siamo tanti'. Questo è, purtroppo, l’elemento più inquietante che emerge. Forse cinque persone tra kamikaze e bombaroli, probabilmente alcuni ancora liberi nella capitale belga e pronti a ripetere stragi. Soprattutto, le complicità che hanno permesso al latitante Abdeslam di nascondersi per quattro mesi praticamente a casa propria non possono che essere ampie e diffuse, radicate nelle zone periferiche dove ha attecchito il verbo estremista, spesso seminato da imam arrivati o comunque finanziati dal movimento wahhabita di origine saudita. Gli attentati, i più sanguinosi nella storia del Belgio, dimostrano che i jihadisti pronti a farsi saltare per la delirante causa del fondamentalismo islamico – siano o meno affiliati del Daesh – sono ormai numerosi, tragicamente 'efficienti' e possono contare su una zona grigia estesa e impermeabile. Paradossalmente, la chiusura dell’intero Paese, con aerei e treni fermati e frontiere sigillate, non fa che amplificare l’effetto delle stragi, dando loro più forza simbolica. È tardi per fermare gli eccidi, il blocco non permetterà verosimilmente di catturare altri terroristi, innalzerà i timori di nuove azioni e limiterà le attività pubbliche ed economiche, provocando ancor più disagi e danni. È certo difficile non ricorrere a simili provvedimenti restrittivi nelle ore dell’emergenza in cui si moltiplicano i falsi allarmi, ma tutte le reazioni emotive non fanno che aumentare i successi di chi vuole spargere il terrore e come obiettivo ha proprio lo stravolgimento della nostra vita quotidiana sull’onda della paura. Gli attentati di Bruxelles, ancora una volta, ci dicono che non esiste altra via che isolare gli estremisti prima che possano mettere radici ed estendere le proprie venefiche reti di reclutamento.
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