I regali con cui ricopriamo i figli e quello che spetta loro davvero
sabato 10 giugno 2017

Caro Avvenire,

la bicicletta azzurra che negli anni Sessanta i miei genitori mi regalarono per il mio decimo compleanno, mi rese un bimbo felice. Negli anni successivi anche l’Elvis Presley di latta che suonava e cantava, il disco volante che s’illuminava sibilando e il proiettore con le diapositive di Braccobaldo, mi fecero toccare il cielo con un dito. Ma bastava anche un semplice pallone, dei soldatini o delle biglie di vetro colorato per darmi molta gioia.

Ancora oggi ricordo i giocattoli della mia infanzia, e soprattutto l’indescrivibile emozione che provavo nel riceverli. Ringraziavo coprendo di baci i miei genitori, aprivo l’incarto col cuore a mille e chissà quanto stupore si leggeva nei miei occhi. In quegli anni i regali erano piuttosto rari, avevano il significato del premio e anche per questo ogni dono era un evento da ricordare. Momenti magici che i bambini di oggi ricevendo continuamente tutto, non possono gustare: nulla li emoziona più, se non per qualche attimo. Purtroppo i frenetici ritmi dei nostri giorni, talvolta sono causa di una minore attenzione nei loro confronti, e il regalo diventa una sorta di compensazione.

Di cosa hanno davvero bisogno i nostri bambini? Probabilmente di essere guardati di più negli occhi e di essere ascoltati, magari qualche volta con tv e cellulare spenti. E qualche sera di addormentarsi semplicemente ascoltando una fiaba.

Michele Massa, Bologna

Questa lettera mi ha fatto venire in mente i miei primi Natali, quando ogni pacco lucente conteneva una meraviglia lungamente attesa e sognata. Eppure c’era sempre un istante, una volta aperti tutti i regali, in cui li guardavo, uno accanto all’altro, nuovi, bellissimi, e tuttavia mi pareva che qualcosa mancasse. Che tutti quegli oggetti ancora non fossero sufficienti a corrispondere al desiderio con cui avevo aspettato quel giorno.

Di cosa hanno bisogno davvero i bambini, si chiede il lettore. Di regali, è vero, oggi spesso gliene si fa troppi, magari per compensare i pomeriggi solitari dei figli unici, o il tempo che non si passa con loro, stretti come si è dai ritmi del lavoro quotidiano. Come madre che ha lavorato, ricordo bene quest’ansia, tornando a casa la sera, di dare loro qualcosa di bello, di vederli sorridere. Ma una bambola o un dinosauro di gomma suscitavano la loro attenzione per mezz’ora, e subito venivano deposti in un angolo.

Ben altro vogliono i bambini: affetto, gioco, fiabe, vicinanza fisica, tempo passato insieme. E ammetto che, pur pienamente riconoscendo il diritto alle donne a lavorare, come del resto ho fatto io, mi rimane insoluta una questione: che ne è, nell’assenza ogni giorno di entrambi i genitori, del tempo necessario ai bambini. Certo, esistono gli asili, le baby sitter, soprattutto grazie a Dio esistono i nonni, ultimi angeli custodi delle nostre case.

Eppure, oggi spesso non diamo ai figli ciò che loro spetta davvero. Che è, almeno nei primi anni, avventurarsi nel mondo accanto a noi. Aprire gli occhi al mondo, accompagnati da noi. Così che io ricordo con gioia e nostalgia il mese di vacanza al mare che facevo, io sola, il marito a Milano, ogni anno con i miei tre. Quando al mattino si alzavano e già fremevano dalla voglia di andare in spiaggia, di entrare in acqua, irresistibilmente attratti da quell’azzurro infinito. Quando ogni passeggiata era una scoperta: lucertole, more, nidi, acquazzoni sotto cui rincasare di corsa, ridendo. E, dopo, arcobaleni, e pozzanghere, grandi pozzanghere su strade sterrate in cui li lasciavo saltare, felici, schizzando fango dappertutto. Perché mi ricordavo bene ancora che meraviglia era per me un tempo una pozzanghera, e le flotte di barchette di carta che ci facevo navigare, mentre mia madre, affacciata al balcone in montagna, mi lasciava fare.

Di cosa hanno bisogno i bambini? Hanno bisogno, prima di tutto, di una madre e di un padre. Hanno bisogno che trasmettiamo loro lo thauma, il sacro stupore, davanti alla perfezione di una ragnatela o di una foglia, o alla bellezza di un’alba. Da quello stupore trarranno l’idea che il mondo è un disegno buono, tracciato da un Padre molto grande. E che non sono dunque, comunque, soli, ma che quel Padre li ha pensati e voluti da sempre. Trasmettere questo, vale mille regali: se quella certezza, come una radice, si allunga nel profondo del cuore, l’albero che ne viene resta in piedi anche nelle tempeste. Aggrappato come è alla roccia, e non alla sabbia friabile di povere cose, che subito vengono a noia.

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