mercoledì 15 novembre 2017
L’Italia che non partecipa ai mondiali del 2018 in Russia è una mezza tragedia. Dietro il fallimento ragioni tecniche, umane, sociali e forse anche ideologiche. Che lezioni trarre dalla débacle?
I giocatori della Nazionale dopo la partita con la Svezia costata la qualificazione ai mondiali (Ansa)

I giocatori della Nazionale dopo la partita con la Svezia costata la qualificazione ai mondiali (Ansa)

COMMENTA E CONDIVIDI

Niente notti magiche, niente pizzate con gli amici per la partita, niente maxischermi, niente bambini alzati coi grandi, niente visioni condivise al campeggio o in pensione con tedeschi o francesi, niente sfottò al turista, niente sogni di caroselli festosi per la vittoria. Niente di niente, questa volta l’Italia passa, non il turno, ma la mano. La Nazionale di calcio pareggiando 0-0 con la Svezia non si è qualificata per il mondiale di Russia della prossima estate. Potrà riprovarci tra quattro anni. È la seconda volta nella storia che accade, l’altra qualificazione fallita era stata nel 1958. Inutile cercare analogie: sessant’anni fa il nostro Paese si stava avviando al 'miracolo economico', oggi il miracolo sarebbe poter godere di una crescita in media europea, riuscendo magari a ridurre il fardello di quel debito che nasce anche dai 'miracoli' del passato. Insomma, nell’Italia in cui sono tutti commissari tecnici la mancata qualificazione fa male. Sottrae a un popolo il sogno di poter ricordare al mondo che, nonostante tutto, ogni tanto nel gioco di squadra più bello che c’è sappiamo arrivare primi. Da 'Mexico ’70' in poi in finale ci siamo andati ogni 12 anni, e Russia 2018 lasciava ben sperare. Invece niente. Non è una tragedia. Ma c’è da riflettere. I prati e i giardini non sono più pieni di bambini che rincorrono un pallone, si gioca solo nelle scuole calcio, la squadra è spesso una via che deve portare al successo individuale, i genitori non amano perdere, la parola 'gioco' si accompagna sempre di più allo squallore delle scommesse e dell’azzardo. La crisi della Nazionale brucia, ma può dirci molto di come siamo diventati. E di come possiamo cambiare.


Addio dribbling. La fine del gioco con la misteriosa scomparsa della fantasia al potere

«Dribbling», termine inglese che indica il gesto tecnico del calciatore «nel momento in cui supera un giocatore avversario con la palla al piede». Ecco, nel calcio italiano, vedi alla voce Nazionale, il dribbling è misteriosamente scomparso.Dribbling è solo il titolo della trasmissione sportiva del sabato pomeriggio (Rai 2) andata in onda per la prima volta nel 1973. Anni in cui tanti ancora in campo praticavano l’antica e spettacolare arte del dribbling che nella scuola sudamericana aveva avuto i massimi epigoni in Garrincha e Pelè e in quella europea in George Best e Cruijff. Da noi, dopo i "dribblomani" Sivori e Gigi Meroni, chi sapeva saltare l’uomo e crossare per mandare in gol il compagno veniva elevato al rango di "Poeta". È il caso degli storici numeri "7" (spariti in un calcio in cui il portiere indossa la maglia n. 90) le ali libere Claudio Sala, Franco Causio e Bruno Conti. Quest’ultimo, proprio in quanto artista del dribbling, al Mundial di Spagna ’82 (quando eravamo re) si laureò miglior giocatore del torneo con tanto di lode: «Conti Bruno, più brasiliano dei brasiliani». Donadoni, Del Piero, Roberto Mancini, Roby Baggio, Pirlo, Totti, Cassano... hanno portato avanti la nobile tradizione del «saltatore d’uomo». Poi, all’improvviso, la misteriosa scomparsa della fantasia al potere. Il perché è facilmente spiegabile. Nelle scuole calcio si studia, si danno i compiti e spesso si penalizza chi osa uscire dagli schemi obbligati. Prima si impara la «zona» e poi a stoppare bene il pallone. Così il dribbling, da materia propedeutica per giocare, divertire e soprattutto divertirsi – almeno finché si è piccoli – è talora facoltativo e vieppiù vietato. Un Poeta che amava tanto il calcio, Pier Paolo Pasolini, aveva previsto tutto questo, senza causa né pretesto: «Il sogno di ogni giocatore è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare – scrive –. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai».

Massimiliano Castellani

Dalle parole per ottenere consensi alle curve per inviare messaggi Il sogno di un calcio per bambini

Dopo la mancata qualificazione della Nazionale ai mondiali di Russia c’è chi, come il segretario del Pd Matteo Renzi, chiede a Tavecchio e Ventura di «riflettere» sulla loro posizione; chi come il segretario della Lega Matteo Salvini propone di valorizzare di più i «nostri» giovani; chi come la presidente di Fdi Giorgia Meloni attribuisce la colpa della sconfitta ai «troppi stranieri» nelle squadre. È una storia antica come il pallone: da sempre calcio e politica vanno a braccetto. La politica è nelle curve, sugli spalti, si infiltra, contraddistingue, caratterizza e condiziona le tifoserie. Il calcio è un bacino popolare troppo ampio per sfuggire alle attenzioni della politica o per sottrarsi alle logiche del potere. Il caso delle dimissioni da ct di Dino Zoff dopo l’Europeo del 2000 e il giudizio dell’allora premier Silvio Berlusconi ha fatto storia. Non accade solo in Italia. Ma da noi il rapporto calcio-politica tocca vette significative. Ci sono le imprese politiche costruite anche sui successi delle squadre (il Milan di Berlusconi è un riferimento di caratura mondiale), c’è qualche carriera politica nata da avventure sportive (Rivera, Galli, Weah, Mauro...), e ci sono i politici che usano il palcoscenico calcistico come cassa di risonanza. Il dibattito su italiani e stranieri in campo segue questo copione. Poi c’è il lato peggiore, l’uso che si fa delle tifoserie per costruire un immaginario e veicolare messaggi. Le "curve" in questi anni sono state spesso l’amplificatore di contenuti a sfondo razzista che, piano piano, tra cori e insulti, tra striscioni e ululati, hanno finito per sedimentarsi e porre le basi alla costruzione di un nuovo consenso. Il calcio non è solo un gioco, ma se la politica non può fare a meno del calcio, forse il calcio oggi ha bisogno di fare a meno della politica. Alleggerire, sdrammatizzare: diventare un gioco per bambini, o per adulti che vogliono a divertirsi come fossero bambini.


Massimo Calvi

Ma non sarà una sconfitta se sapremo vincere la sfida con noi stessi

E se non fosse una sconfitta? O meglio: se non fosse solo una sconfitta? Dopo la mancata qualificazione della Nazionale ai Mondiali di Russia, infatti, ci sono almeno due errori da non commettere. Il primo è quello di chiudersi in un "lutto stretto", inconsolabile, per ciò che poteva essere e non sarà. Allegri! Non solo la vita continua e offre molte altre opportunità... ma uno sportivo autentico gode anche, e forse più, a vedere una partita tra altre Nazionali, capaci di dare spettacolo sul piano tecnico e della passione di gioco. Il fatto di non essere "noi" in campo, come accade con gli Azzurri, di non avere perciò "ansie da prestazione", può perfino essere un vantaggio. Il secondo errore è quello di considerare la mancata qualificazione come un disonore, una macchia indelebile sul pedigree nazionale. È vero, abbiamo una grande tradizione nel giuoco del calcio, ma vince chi corre di più o ha miglior tattica e noi evidentemente oggi non siamo fra le prime 32 nazionali a livello mondiale. Non arrivare in finale o non qualificarsi è nell’ordine delle cose, nello sport per fortuna è naturale anche un turn-over delle abilità e dei vincenti, con Paesi che crescono e altri che declinano. Certo, l’altra sera avremmo preferito tutti un netto riscatto, un colpo di reni che ci portasse dritti a sognare le serate di San Pietroburgo. Ma se avessimo agguantato la qualificazione solo per un pizzico di fortuna sarebbe stato peggio, un vero disastro. Perché non avremmo imparato nulla, dato che si apprende assai più dalle sconfitte che dai successi. La vittoria più importante, infatti, è sempre quella con se stessi. È la capacità di rialzarsi, comprendere cosa si è sbagliato, impegnarsi, soffrire e così migliorarsi. Se lo capiremo saremo, comunque, Campioni del mondo.

Francesco Riccardi

I tanti stranieri nelle squadre non sono un problema. Il futuro si costruisce dai giovani

In Spagna il più forte... sono due: l’argentino Messi e il portoghese Cristiano Ronaldo. La Germania segna in polacco con Lewandowski. L’Inghilterra mette in vetrina il transalpino Pogba e il belga De Bruyne. La Francia, o meglio Parigi, spasima per il brasiliano Neymar e un altro argentino cioè l’ex Napoli e Palermo, Edinson Cavani. Come si vede, quello degli stranieri non è solo un problema del campionato italiano, ma un’epidemia che coinvolge tutti, un contagio di talenti che non risparmia neppure la ricchissima <+CORSIVOBA>Premier<+TONDOBA> inglese o la tanto decantata <+CORSIVOBA>Liga<+TONDOBA> spagnola. La differenza semmai è che Asensio, iberico classe 1996, domina la finale di Champions con il Real Madrid mentre Bernardeschi, di due anni più vecchio, fa la riserva, "di prestigio" ma pur sempre riserva, nella Juve. L’imbuto che soffoca il nostro pallone non va cercato tanto nei vivai, spesso ben curati, ma nell’atteggiamento troppo materno, "mammone" verrebbe voglia di dire, che impedisce la maturazione dei possibili futuri campioni. Un esempio per tutti: della nostra Under 21 soltanto in tre, Federico Chiesa, Mandragora e Barella giocano titolari nel massimo campionato, per tutti gli altri vale la regola dell’alternanza panchina-tribuna in attesa spesso di trovare una squadra più piccola dove avere spazio. Ancora qualche numero per capire. Dei giocatori di serie A l’8% appena è cresciuto nel club in cui gioca, contro il 12% inglese e il 22-23% della Liga. Per il timore di bruciarli, i pochi talenti sulla piazza, perché un problema generazionale esiste, vengono fatti appassire. Non si tratta allora di costruire barriere nazionaliste fuori dal tempo e dalla storia ma di credere nel futuro, di restituire significato al concetto di responsabilità. Né potrebbe essere altrimenti. Perché lo sport i muri li fa cadere, alla peggio li salta, certo non li costruisce.

Riccardo Maccioni


L’individualismo non va in porta. La squadra mette a frutto i singoli nel nome di una causa condivisa

Facile parlare di «gioco di squadra», una delle espressioni più abusate di certa retorica aziendale che cerca di indurre comportamenti giapponesi (la causa comune prima del bene individuale, e il secondo indissolubilmente legato alla riuscita della prima) in strutture dove prevale la sindrome di Narciso (se ho successo io, il risultato collettivo non può che seguire). Il doppio confronto tra Italia e Svezia è sembrato mostrare in modo plastico cosa sta accadendo nelle viscere di un Paese che prova a rialzare la testa ma deve fare i conti con un crescente appesantimento del suo stesso corpo, come un’inspiegabile zavorra che tra venti tentativi ti impedisce di cavar fuori un solo gol, in una frustrazione resa ancor più insostenibile dal fatto che non se ne vede la causa: ma come, eravamo chiaramente più forti, perché non abbiamo vinto noi? È apparso evidente anche ai non calciofili che la Nazionale ha giocato come un ensemble casuale di singoli ruoli (un portiere, un terzino destro, un centravanti...) uniti non da un obiettivo comune ma dall’inesorabilità di un appuntamento del calendario. Cosa fa di undici giocatori, di un gruppo umano, di una compagine sociale, una «squadra» dove ogni interprete agisce solo in funzione di tutti gli altri? Una squadra tecnicamente modesta come la Svezia ha contenuto senza troppi patemi una somma di estranei di successo come l’Italia semplicemente perché i suoi componenti hanno compreso che a decidere è la dedizione reciproca, e che l’esibizione di numeri personali può strappare un applauso ma non incide su nessuna storia. Un Paese illuso che libertà, diritti, consumi, scelte, desideri individuali prevalgano su ogni considerazione comunitaria finisce eliminata da se stessa, prima ancora che da una qualunque Svezia senza solisti ma con la chiara consapevolezza di un destino comune.

Francesco Ognibene



© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI