venerdì 3 ottobre 2014
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Viviamo in un tempo di loquace afasìa. Ma c’è anche sete di una parola non equivalente, autorevole perché impregnata di vita. Una parola incarnata nella testimonianza e condivisa nella narrazione. Narrare significa ereditare un linguaggio e rinnovarlo; discernere tra gli avvenimenti significativi e quelli irrilevanti; riconoscere che le trame dei personaggi sono sempre intrecciate e interdipendenti; saper 'empatizzare', mettersi nei panni degli altri e coltivare così una capacità dialogica, che non assolutizza il proprio punto di vista. Ogni narrazione è intessuta di voci, ogni racconto è polifonico: parla del legame, educa all’alterità. Dice che la nostra storia si coniuga sempre con quella degli altri.  Ciò che ha valore va sempre raccontato. Le stesse Scritture sono straordinari depositi di narrazioni. Conosciamo Gesù attraverso i racconti dei Vangeli, e lui stesso parlava in parabole. Karl Barth scriveva che «chi è Gesù può solo essere raccontato e non definito come un sistema». Lo stesso vale per la famiglia. Oggi bisogna raccontare la famiglia. È l’invito che ci fa anche Papa Francesco, che ha scelto come tema per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2015 «Comunicare la famiglia: ambiente privilegiato dell’incontro nella gratuità dell’amore».  Ma quali sono i discorsi sulla famiglia che quotidianamente ci raggiungono? A me sembrano prevalere due modelli, che chiamerei della 'destituzione' e dell’emergenza. Da una parte, della famiglia parla soprattutto chi non ci crede, chi non ce l’ha o non la vive, chi vuole smantellare un’istituzione dipinta come obsoleta, oppressiva, retrograda. Uno sguardo dall’esterno, deliberatamente cieco ai vissuti più profondi di chi la famiglia la vive davvero. Lo scriveva già Romano Guardini più di mezzo secolo fa: «Secondo le più diverse prospettive, v’è oggi una tendenza a mettere in discussione la famiglia, anzi a dissolverla» (Etica). E ne forniva anche la ragione: «Essa costituisce l’ostacolo naturale più forte contro l’assorbimento dell’individuo». La seconda prospettiva – dell’emergenza – mette in rilievo solo le questioni problematiche: la violenza in famiglia, la disgregazione e ricomposizione dei nuclei con il carico di sofferenze che ne deriva, le nuove povertà verso cui scivola soprattutto chi ha figli, i problemi posti alla Chiesa dalle nuove situazioni irregolari, e via di questo passo. Non è affatto casuale che l’attenzione dei media rispetto all’imminente Sinodo sulla famiglia sia ossessivamente concentrata sulla questione della comunione ai divorziati risposati. Come se la famiglia fosse principalmente il luogo di spinosi problemi da risolvere.  C’è un deficit di narrazione sulla famiglia, non tanto in senso quantitativo, ma qualitativo. Servono nuovi racconti, che escano dalla sterile polarizzazione proposta da gran parte dei media: da una parte una famiglia 'strapazzata', tra problematicità e «nuovi diritti» (che sono sempre individuali, quindi la famiglia fa problema); dall’altra rappresentazioni stucchevoli in stile pubblicitario, oppure battaglie ideologiche giocate in chiave solo difensiva, chiusa al dialogo, ingabbiata nei precetti, incapace di trasmettere la gioiosa e caotica verità della famiglia. Serve una parola vitale, impregnata di esperienza, che mentre la racconta ne fa dono e la fa condividere. Ma per poter comunicare la famiglia bisogna reimparare a comunicare in famiglia, a coltivare la nostra 'intelligenza narrativa'. Intanto con la custodia della memoria. Ci sono storie che ci precedono, che ci hanno consentito di arrivare fin qui, che sono parte della nostra identità. Continuiamo a raccontarle. E poi con l’immaginazione: di quale storia voglio far parte?  In un libro dal titolo evocativo, 'Generare è narrare', il gesuita Jean-Pierre Sonnet riconosce questo fondamentale carattere della famiglia: «Al di là di tutte le sue fragilità attuali, la famiglia è una comunità narrativa, in cui le crisi e le riconciliazioni, i lutti, le nascite e le adozioni vengono vissuti in una narrazione che continua a incrociare quella delle Scritture». La famiglia può raccontarsi se diventa testimone di se stessa. È il testimone che può raccontare. E mentre racconta si impegna, promette di essere sempre degno della storia che custodisce. Raccontiamoci, per passare il testimone e consegnare ad altri l’eredità di vita che ci è stata regalata.
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