venerdì 5 giugno 2009
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La solitudine delle famiglie con un figlio affetto da grave disabilità resta spesso sotto una coltre di silenzio inesorabile. È uno dei drammi sociali meno ascoltati del nostro tempo, aggravato dalla crisi del welfare che taglia i fondi in accompagnamenti sociali per patologie considerate inguaribili. Anche i media lasciano queste storie ai margini, se ne ricordano solo quando un padre o una madre uccidono il figlio per un dolore solitario che ha varcato il limite della disperazione. Allora la cronaca concede un po’ di spazio alle 'tragedie della solitudine' della porta accanto. Non ci sono ricerche o statistiche che fotografano questa galassia, ma una ricognizione nei centri che stanno accanto alle persone affette dalle patologie più gravi – come ad esempio la Fondazione don Gnocchi – introduce a esperienze di sofferenza vissute nel silenzio.La solitudine nasce da tanti fattori; dall’enorme carico di lavoro casalingo quotidiano, dalle rinunce professionali che l’amore genitoriale e il senso di colpa di padri e madri (non giustificato, evidentemente, ma presente) portano a compiere per offrire sempre il meglio al figlio con problemi motori e insufficienze mentali. Restano poco tempo e poche energie, subentra nel nucleo una comprensibile tendenza all’isolamento. Accanto a ciò non dobbiamo, però, scordare il peso che ancora rivestono nel Belpaese i pregiudizi culturali verso i disabili e i loro congiunti in campo lavorativo e nella rete degli amici e dei conoscenti. Al sud, in particolare, la disabilità è ancora considerata da molti una vergogna e le difficoltà sono maggiori. Spesso chi ha un figlio disabile deve migrare al nord per offrirgli migliore assistenza e possibilità di inclusione sociale. E la prima ricaduta della solitudine è il crescente numero di separazioni che seguono la nascita di un bambino disabile. Uno dei due coniugi (più frequentemente, dice la prassi, il marito) 'rifiuta' il nuovo nato e le conseguenti responsabilità. Ma pure quando la coppia tiene, subentra spesso il problema degli altri figli normodotati. Occorre infatti ripensare la loro quotidianità in funzione del figlio malato: vacanze, fine settimana, tempo libero. In campo lavorativo è quasi inevitabile per i genitori rinunciare alla carriera, scegliendo magari impieghi a tempo parziale con una decurtazione del reddito. Senza contare che non tutti gli ausili sono passati dalle Aziende sanitarie e occorrono sacrifici economici supplementari. Infine, per tutta la vita resta l’angoscia del 'dopo di noi': chi darà supporto e amore al figlio quando papà e mamma saranno morti? Basta questo sommario elenco per dare il quadro di una solitudine da accompagnare. Non si tratta di sollevare l’ente pubblico dai propri doveri, ma c’è un di più che può venire solo dalla comunità. Lo scambio di informazioni, ad esempio. Da tempo le realtà del privato­sociale, soprattutto di ispirazione cristiana, si sono fatte carico di questi drammi con l’abnegazione e la gratuità di volontari e operatori. Un efficace strumento è creare reti famigliari di auto-aiuto perché chi ha affrontato determinate situazioni possa fungere da stimolo, aprendo un confronto proficuo e umano a tutto campo. Ma la famiglia ha bisogno anche di relazioni esterne al mondo della disabilità. Ed è interessante rilevare come in alcune parrocchie si stiano creando spazi per l’accoglienza non solo per i figli disabili, ma anche per i genitori che, così, conoscono altri genitori. Può essere una sfida per la comunità cristiana, partire dalla lezione di catechismo settimanale per aprire nuovi cammini di integrazione famigliare. E di amicizia.
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