giovedì 12 novembre 2020
Bar, ristoranti, palestre, mezzi di trasporto sembrano essere diventati più pericolosi con la ripartenza dell’epidemia. Così anche tra le professioni. A rischio le fasce deboli
I contagi della seconda ondata? Nel tempo libero, non a scuola

Ansa

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È la domanda delle domande, quella a cui riuscivamo (forse) a rispondere ai primi di agosto, quando in Italia si contavano poco più di 300 contagi al giorno, e su cui oggi brancoliamo totalmente nel buio: dove si prende, il Covid? La risposta messa nero su bianco dall’Istituto superiore di sanità è più o meno questa: non lo sappiamo. Più precisamente «continua ad aumentare il numero di casi non riconducibili a catene di trasmissione note – recita l’ultimo monitoraggio della Cabina di regia, su cui mercoledì si è deciso il cambio di colore di un altro pezzo di Paese –: 74.967 questa settimana contro i 49.511 di quella prima».

Per capire di cosa stiamo parlando, in termini concreti, serve ricordare che mediamente ogni persona intrattiene rapporti considerati a rischio con almeno altre 10: significa che nel corso dell’ultima settimana abbiamo avuto potenzialmente quasi un milione di persone a spasso senza la minima percezione di essere potenziali diffusori e senza poterli intercettare. Questo spiega bene perché, saltato completamente il sistema di tracciamento, l’unica soluzione per raffreddare la curva sia la mitigazione del contagio attraverso le chiusure generalizzate: non sappiamo più da dove viene e dove va il virus, riduciamo il più possibile circolazione e contatti finché i contagi non tornano a scendere. La strategia, intendiamoci, probabilmente funzionerà: i primi, timidi segnali di rallentamento della curva si sono concretizzati già negli ultimi giorni. Ma i costi delle misure adottate in termini sociali ed economici sono, di nuovo, altissimi. E rieccoci al punto allora, alla domanda a cui una volta usciti da questa seconda fase critica il governo e le autorità sanitarie dovranno saper rispondere: dove si prende, il Covid? Meglio, dove gli abbiamo permesso di circolare indisturbato e di minare tutto il vantaggio che avevamo costruito nel corso degli ultimi sei mesi? Saperlo, ormai è chiaro, diventa decisivo per non trovarci più nella situazione di oggi.

Risposte ne sono state ipotizzate molte. In queste ore, per esempio, un’inchiesta della Procura di Cagliari è tornata a mettere a tema la spinosa questione delle discoteche aperte quest’estate in Sardegna (ma fino a dopo Ferragosto lo sono state anche nel resto del Paese): in quel caso, non sarà difficile da accertare, gli assembramenti indiscriminati nei locali e la circolazione dei turisti su un territorio in buona sostanza rimasto Covid-free sono stati decisivi per la ripartenza dell’epidemia. Col disastro in termini di vite umane ed emergenza sanitaria che per l’isola questo ha comportato. Dal punto di vista scientifico, tuttavia, dati sui luoghi dove il contagio corre di più in Italia non ne abbiamo e non ne abbiamo mai avuti. È una delle lacune lamentate più volte nel corso delle ultime settimane dai più svariati gruppi di studio indipendenti sul Covid ed esplicitata dal presidente dell’Accademia dei Lincei Giorgio Parisi in un articolo pubblicato alla fine di ottobre su Scienza in rete: «Quanto influiscono sui contagi in Italia i ristoranti, le cene in famiglia, la riunione in ufficio, la convivenza familiare, le feste? Quali sono le attività più a rischio, oltre ovviamente quelle che già si conoscono: la sanità, la preparazione dei salumi, i centri di distribuzione postale?» si chiedeva Parisi, ricordando che l’unico monitoraggio effettuato con precisione (ma anche qui con diversi limiti) è stato da settembre quello sulla scuola, che per altro ha dimostrato di non essere affatto un luogo di propagazione sostenuta dell’epidemia: 3,5% i focolai riconducibili alle classi, e ancora ieri la ministra Azzolina lo ha ricordato con forza. «Senza dati precisi – proseguiva Parisi – come fare a valutare gli effetti positivi o negativi di provvedimenti come la chiusura dei centri commerciali durante il weekend o delle scuole elementari?». O, aggiungiamo noi, dei parchi e dei lungomare, che pure nelle ultime ore sono tornati sotto i riflettori dei media scatenando infinite polemiche: ci si contagia al parco? Ci si contagia sul lungomare affollato di Napoli? E sui mezzi pubblici? Un altro abisso inesplorato, su cui pure si sono consumate infinite polemiche e recriminazioni.

Che un tracciamento dei contagi utile alle decisioni politiche per il contenimento dell’epidemia sia possibile lo dimostra uno studio americano pubblicato da Nature proprio in queste ore e condotto dagli esperti della Stanford University e della Northwestern University. Il team ha utilizzato i dati anonimi raccolti grazie ai telefoni cellulari, per mappare i movimenti di 98 milioni di persone provenienti da diversi quartieri delle più grandi città statunitensi. Risultato: ristoranti, bar, caffè e palestre sono risultati i luoghi in cui il rischio di contagio è risultato più elevato. Spazi ristretti e al chiuso, affollati, dove pur mantenendo le distanze il virus evidentemente si propaga facilmente. Di più: visto che nei modelli informatici costruiti per analizzare i dati gli esperti americani hanno inserito anche le fasce reddituali diverse della popolazione presa in esame, lo studio ha potuto osservare anche l’evidente disparità nel rischio di infezione in base allo stato socioeconomico degli utenti. Chi è più povero è costretto a muoversi di più e a frequentare, per esempio, supermercati e discount più affollati, si ammala anche più facilmente. Sulla base di tutto ciò, il team è arrivato a prevedere la probabilità di nuove infezioni in un dato momento, luogo o tempo: è stato cioè per la prima volta costruito un modello di trasmissione del virus identificando le potenziali sedi e le popolazioni ad alto rischio. E le simulazioni hanno previsto con precisione il conteggio giornaliero poi confermato dei casi in dieci delle più grandi aree metropolitane, tra cui Chicago, New York e San Francisco (arrivando a individuare 553mila località distinte raggruppate in 20 categorie chiamati “punti di interesse”). Insomma, una miniera inestimabile di dati che sono stati messi a disposizione delle autorità per capire quando e cosa chiudere, e per quanto tempo, per ottenere una determinata riduzione dei contagi.

Maniacale? Tutt’altro, visto che è proprio sulla precisione dei dati scientifici che può essere costruita una strategia efficace (e meno penalizzante del lockdown generalizzato) di lotta al virus. Dall’inizio dell’epidemia, per esempio, li ha forniti per la Germania con grafici dettagliati il Koch Institute, confermando anche qui la maggiore circolazione del Covid nei luoghi del tempo libero (birrerie, ristoranti) e in famiglia. Alle professioni a maggiore rischio, invece, e a come si possano modulare le aperture o chiusure di determinate attività per contenere i contagi si sono dedicati anche quattro ricercatori norvegesi (K. Magnusson, K. Nygard, L.Vold e K. Telle) in uno studio svolto per conto dell’Istituto norvegese di sanità pubblica, che ha il pregio addirittura di distinguere tra prima e seconda ondata della pandemia. L’indagine in questo caso è stata condotta su un campione di 3,5 milioni di cittadini norvegesi tra i 20 e i 70 anni confrontati con gli oltre 12mila che hanno contratto il virus (0,3%). I risultati evidenziano come nella fase di avvio dell’infezione, tra il 26 febbraio e il 17 luglio, i più colpiti (con una probabilità da 1,5 a 3,5 volte) siano stati in particolare i professionisti del settore sanitario: dagli infermieri ai medici, dai fisioterapisti ai dentisti, evidentemente non ben protetti o sopraffatti dall’arrivo dei primi malati. Assieme, al di fuori della sanità, a tassisti e guidatori di autobus. Al contrario, insegnanti e studenti, personale impiegato nell’assistenza all’infanzia, così come baristi, camerieri, commessi dei negozi, addetti alle pulizie, istruttori di fitness e parrucchieri non hanno subito un aumento del rischio, o addirittura presentavano un rischio ridotto rispetto agli altri cittadini in età lavorativa. Lo scenario, invece, è cambiato completamente durante la seconda ondata della pandemia, con baristi, camerieri, addetti ai servizi di ristorazione, guide turistiche, assistenti di viaggio e ancora i tassisti a registrare una maggiore probabilità (da 1,5 a 4 volte) di contrarre la malattia rispetto alla popolazione nella medesima età lavorativa. Il rischio è rientrato invece nella media dei cittadini per il personale sanitario, gli autisti di autobus e si conferma tale di nuovo anche per gli operatori dell’assistenza all’infanzia, gli insegnanti, gli studenti, gli istruttori di fitness, i commessi dei negozi, i parrucchieri.

I ricercatori, in questo caso, ribadiscono come gli insegnanti non presentino un rischio superiore di contrarre il coronavirus rispetto alla generalità della popolazione: come a dire che la scuola non è un ambiente particolarmente “pericoloso”. Un dato, quest’ultimo confermato anche dal bollettino dell’Istituto di sanità pubblica della Norvegia, pubblicato l’11 novembre, in cui si evidenzia come appena il 3% dei contagi sia avvenuto a scuola, mentre la maggior parte si registri in ambito familiare, sul lavoro appunto o in eventi privati. In Norvegia gli immigrati sono sovrarappresentati fra i contagiati: sono il 15% dei residenti, ma il 37% dei positivi (di cui un 10% di ritorno in particolare dalla Polonia) e addirittura il 50% dei ricoverati, quelli cioè con i sintomi più gravi o non in grado di curarsi autonomamente in casa, sono nati all’estero. A ulteriore riprova di quanto pesino anche nella tutela della salute fattori come la povertà, il lavoro a bassa remunerazione nel settore dei servizi, l’abitare in appartamenti piccoli e sovraffollati, il minore grado di istruzione. In Italia è successo? I dati sui centri d’accoglienza dicono di no, ma anche in questo caso servirebbero più riscontri, raccolti in più ambiti. Serve una strategia con cui ricominciare, passato questo momento drammatico. Per costruirla si può e si deve chiedere alla scienza più di quello che abbiamo fatto finora.

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