giovedì 5 novembre 2015
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​«Lasciate che i bambini vengano a me» (Mt. 19, 13-15). E poi: «Chi non diventerà come questi bambini non entrerà nel regno dei Cieli». (Mt. 18, 3). Con queste esortazioni siamo cresciuti. Le conosciamo da sempre e pensiamo, ci illudiamo che tutti le conoscano. Ma il quadro impressionante fatto dal direttore di questo giornale il 13 ottobre, quando ha parlato dei bambini abbandonati nelle favelas brasiliane che vengono eliminati  perché Rio de Janeiro si possa presentare "pulita" di fronte alle prossime Olimpiadi, dimostra il contrario. E dimostra il contrario quanto avviene in più di un Paese d’Africa e d’Asia, nelle Americhe e oggi, in particolare, con la ferocia jihadista, in Medio Oriente e in Nigeria. Bambini rapinati dell’infanzia, il dono più grande della vita, e trasformati in piccoli guerrieri già capaci, prima dei dieci anni, di sparare, usare il coltello facendolo scorrere intorno alla gola per sgozzare e fare molto d’altro, compreso, se del caso, tirare una levetta sopra la cintura e saltare per aria. Sono i bambini-soldato. Non solo maschi, anche femmine, gli uni e le altre addestrati a partire da un rigido apprendimento religioso: prima l’acquisizione dei precetti coranici, poi l’inquadramento militare. Si comincia dai cinque, sei anni e si sale fino quindici. Chi muore va in Paradiso, chi recalcitra o fugge o si sottrae  scenderà all’inferno.Oggi sono più di 300mila i minori di 18 anni impegnati nei diversi conflitti che infestano il mondo. In almeno venticinque Paesi hanno partecipato a scontri armati bambini dai 10 ai 16 anni, ma l’età tende ad abbassarsi. Bambini e, lo ripetiamo, bambine se è vero che in Etiopia oltre il 25 per cento delle forze di opposizione armate è costituito da ragazze. D’altronde sono così numerosi oggi i conflitti da fare apparire "naturale" l’impiego di minori. Da aggiungere che la tecnologia ha reso talmente maneggevoli e leggere certe armi da poterle far imbracciare tranquillamente a un bimbo di nove, dieci anni.Per fame, per poter sopravvivere, per un bisogno di protezione, per vendicare atrocità patite in famiglia o nella loro comunità, molti di questi bambini si arruolano spontaneamente, pronti a farsi plagiare, indottrinare, addestrare e trasformare in combattenti. Da tutto ciò nasce una cultura della violenza i cui tentacoli, lo vediamo, si allungano ovunque. Con il risultato che, per chi sopravvive o per quanti riescono un giorno a spogliarsi delle armi, si aprono vite percorse da incubi, panico, grandi difficoltà d’inserimento sociale, incapacità di riprendere o cominciare gli studi o un lavoro. A rendere chiaro, tutto ciò, che là dove ci sono violenze e guerre non c’è più l’infanzia.Georges Bernanos nella prefazione a Les grands cimetières sous la lune scriveva che, se la sua strada era già piena di morti, il più morto dei morti era «il bambino che sono stato». Tanto che, quando sarà l’ora, «è lui che riprenderà il suo posto alla testa della mia vita, che radunerà i miei poveri anni fino all’ultimo e, come un giovane comandante i suoi veterani, riunendo la truppa in disordine, entrerà per primo nella casa del Padre». Ma è chiaro, aggiungeva Bernanos, che non si parla nel nome dell’infanzia se non se ne conosce il linguaggio. «E questo linguaggio è dimenticato: questo linguaggio che io cerco di libro in libro, imbecille! Come se questo linguaggio potesse essere scritto…».No, non può essere scritto. Gli adulti non parlano la lingua dei bambini, non sanno più cosa sognano i bambini, cosa desiderano, cosa sentono, cosa immaginano e cosa sperano. Non sanno come crescono, cosa si muove dentro di loro. Per i bambini caduti nelle grinfie dell’Is, o di chi per esso, la guerra è insegnata come noi insegniamo  uno sport. Dura, spietata disciplina non per formare dei caratteri, ma per farne dei guerrieri. Quando la Germania nazista, sull’orlo della propria catastrofe, chiamò alle armi, nel 1945, i ragazzini nati nel 1933, la guerra era alla fine e molti di quei ragazzini si salvarono. Ma a tutti, allora, quello parve un gesto disperato e irripetibile.  Sono passati settant’anni e il gesto si ripete su larga scala. Perfezionato, tecnologizzato, come e più di allora inammissibile e odioso. Imperdonabile.
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