Il caos disorganizzato di Donald Trump è una via per mettere in moto negoziati di pace? Lo sapremo presto, in ore convulse, nelle quali tutto è aperto su almeno tre fronti cruciali, e le mosse ondivaghe del presidente Usa pesano su ogni tavolo. Aperture, passi indietro, sostegno incondizionato e poi qualche freddezza, mediazione in una crisi inattesa. C’è tutto questo da parte americana dietro le guerre in Ucraina e a Gaza, nonché nello sperabilmente solo sfiorato conflitto tra India e Pakistan. Ma sulla scena c’è da giovedì scorso un nuovo protagonista, armato solo dell’autorevolezza spirituale e della rappresentanza di oltre un miliardo di cattolici. Leone XIV domenica ha fatto risuonare il suo primo e potente: «Mai più la guerra». In questa inedita miscela militar-diplomatico-umanitaria si possono aprire spiragli di trattativa, salvagenti di speranze per popolazioni allo stremo o minacciate da impreviste escalation.
Salvo altri colpi di scena, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sarà giovedì in Turchia ad attendere Vladimir Putin per un faccia a faccia che sarebbe “più storico” di tanti momenti così denominati nei mesi recenti. Se davvero il capo del Cremlino volerà dall’amico scomodo Recep Tayyip Erdogan per sedersi di fronte a quello che definisce «il capo dei nazisti di Kiev» (e c’è da dubitarne fino all’ultimo istante), qualcosa sarà davvero cambiato dopo oltre tre anni di feroci scontri. Il presidente russo non ama gli ultimatum – e l’Europa che ha ritrovato un po’ di compattezza e di determinazione, forse anche grazie al nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz, gliene ha lanciato uno.
La novità sta nel sostanziale appoggio della Casa Bianca: tregua di 30 giorni e colloqui, altrimenti sanzioni mirate a colpire l’export russo di energia, vero polmone di un’economia di guerra altrimenti in forte debito d’ossigeno.
Non importa che Trump abbia poi cambiato idea, accettando la controproposta venuta da Mosca di avviare un tavolo prima del cessate il fuoco. Comunque, per una volta si può concordare con il tycoon: mettere a colloquio i due contendenti (magari alla presenza dello stesso presidente Usa) sarebbe un risultato che vale le concessioni fatte alla parte sbagliata e le molte giravolte compiute dal 20 gennaio fino a oggi. Resta, è ovvio, l’interrogativo sulla reale volontà di Putin: mira solo a prendere tempo senza alcuna intenzione di accettare compromessi? Teme la linea dura americana? Oppure, la sua macchina bellica non è solida come le piccole avanzate sul campo e i ripetuti raid aerei farebbero intuire? Se il conflitto diventasse troppo lungo anche per lo Zar, i minimi spiragli attuali per un cessate il fuoco duraturo si potrebbero tramutare in un’opportunità reale da cogliere. Una visita a Kiev di papa Prevost, auspicata da Zelensky nel loro colloquio di ieri, costituirebbe allora un suggello di pace frutto anche dell’impegno dell’attuale Pontefice e del suo predecessore in questi anni di combattimenti al confine europeo.
E un barlume di speranza può venire anche dal Medio Oriente, dove Trump viaggia senza fare tappa in Israele, circostanza che ha suscitato il disappunto del premier Benjamin Netanyahu, mentre Hamas rilascia un ostaggio cercando di ripristinare le condizioni per una tregua essenziale per la vita di decine di migliaia di civili intrappolati nella Striscia di Gaza, ormai quasi senza cibo né cure mediche. Per quanto concerne la strategia degli Stati Uniti, la situazione non è molto diversa dall’Ucraina. Prima carta bianca allo Stato ebraico, con addirittura l’osceno progetto del territorio palestinese trasformato in una destinazione turistica dopo la deportazione dei suoi abitanti. Ora, un piano, pur ancora vago e già contestato, per l’assistenza dei civili e un freno alle ambizioni di occupazione totale del governo di Tel Aviv. La voce che si levava costantemente dalla Santa Sede, e ha già ripreso a levarsi pure con accento americano, non poteva lasciare del tutto indifferenti gli attori dotati di una chance per far cessare una tragedia che rischia di pesare sulle coscienze del mondo.
Non ultima a preoccupare è stata la fiammata di odio e di missili che si è riaccesa tra due potenze atomiche nel cuore dell’Asia. Fa tremare che New Delhi e Islamabad siano sorde ai richiami alla moderazione delle altre grandi potenze e capaci di proseguire le ostilità senza curarsi delle conseguenze a livello globale. Sembra invece che l’intervento di Washington abbia giocato un ruolo importante nel riportare, almeno temporaneamente, alla ragione Narendra Modi e Shehbaz Sharif, impegnati nell’escalation su base nazionalistica.
Non abbiamo bisogno di capi politici populisti e incendiari, bensì di leader di pace. Uno, autentico, si è insediato in Vaticano, uno alla Casa Bianca rimane per ora specialista in annunci e passi avventati, mentre l’Europa fatica a trovare una linea comune e incisiva. Serve uno scatto per superare, senza cedimenti su diritti e valori fondamentali, la contrapposizione armata tra il fronte russo-cinese-sudglobalista ritrovatosi a Mosca per la grande Parata del 9 maggio e il “vecchio” Occidente. Quest’ultimo deve dimostrarsi ancora in grado di indicare la via della difesa degli aggrediti, della convivenza e del rispetto di tutti, prima di perdere completamente la sua credibilità.

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