giovedì 9 giugno 2011
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Se non fosse per un costante flusso di profughi dalla sponda nordafricana verso Lampedusa e Pantelleria, probabilmente avremmo già dimenticato la "rivolta del pane" e la guerra civile libica.Qui in Italia, ammettiamolo, sono altre le notizie che hanno preso il sopravvento. Ci mancava l’avvento del batterio killer (e i sospetti altalenanti su questo o quell’ortaggio) a intasare le prime pagine dei quotidiani, per far dimenticare il ribaltone geopolitico che sta mettendo a soqquadro le vecchie oligarchie del mondo arabo. Ma è doveroso tenere gli occhi bene aperti sulla guerra libica. Ma che cos’altro c’è da bombardare, da quelle parti, dopo migliaia di raid aerei? Dall’ultimo giorno di marzo alla fine di maggio, a leggere le statistiche pubblicate dal britannico Guardian, gli aerei della Nato hanno compiuto oltre tremila missioni sulla Libia. Sono stati colpiti 989 obiettivi. Le navi della coalizione (13mila uomini, provenienti da 18 Paesi, tre sono Stati arabi: Qatar, Giordania ed Emirati) ne hanno intercettate e bloccate 941 mentre cercavano di raggiungere Tripoli. Quaranta sono state abbordate. Ma il presidente francese Sarkozy non aveva detto che sarebbero bastati meno di due mesi con le bombe intelligenti per sloggiare il colonnello Gheddafi?Il rais, lo si voglia o no, è il simulacro di un sistema che non vuole mollare. Deve vivere un momento di folle esaltazione di cui la metafora più eloquente è Assaray al-Hamra, il Castello Rosso di Tripoli, sulla piazza Verde. Come ha scritto Andrea Semplici, uno dei maggiori conoscitori della storia libica, è un luogo shakespeariano. In effetti, ben pochi dei pashà o dei bey turchi che hanno governato la Tripolitania sono morti di vecchiaia in un letto... Sta di fatto che oggi a Tripoli si sta consumando l’ennesima tragedia. Quel maniero è davvero il simbolo della precarietà del potere.Ma per quanto feroce possa essere l’attuale dittatore, valeva davvero la pena fare la guerra? A parte le mediazioni dell’Unione Africana e del governo di Mosca che stanno facendo di tutto per offrire a Gheddafi un esilio dorato, bisogna ammettere che se nel deserto libico non ci fosse l’oro nero, non vi sarebbe stato tutto questo dispiegamento di forze alleate. Si ha quasi l’impressione che la decisione di bombardare la Libia sia stata presa dalle grandi multinazionali petrolifere e non dagli Stati sovrani fautori della democrazia.Ancora una volta le cancellerie si dimostrano inconcludenti, anche perché la rivolta libica è un po’ diversa da quella dei vicini di casa egiziani e tunisini. In Libia è in atto una guerra civile tra Tripolitania e Cirenaica che, comunque vadano a finire le cose, lascerà i suoi strascichi per lunghi anni. E come spesso accade in guerra non si riesce a capire come effettivamente stiano andando le cose. A parte che ogni tanto Gheddafi viene dato per morto, per poi miracolosamente rispuntare da qualche parte, il presidente sudafricano Jacob Zuma è stato ricevuto nella caserma di Bab al-Zaziya, una delle residenze simbolo del regime.Ma non era stata ripetutamente bombardata dalla Nato?Chi ha avuto modo di visitare quel fortilizio sa bene che non è affatto smisurato come qualche improvvido cronista anglosassone vorrebbe far credere. D’altronde a Gheddafi piacciono le finzioni. Forse non tutti sanno che l’ora legale è perenne in Libia: pare per volere del rais. Anche le feste islamiche, in Libia, hanno un calendario diverso. A riprova dell’ostilità che divide il colonnello dai regnanti sauditi, custodi dell’ortodossia musulmana. Certo, lui è il "qaid", il Capo. Colui che dovrà rispondere prima o poi per le nefandezze commesse dal suo grottesco regime. Ma intanto, oggi, a pagare il prezzo più alto è la povera gente. Sì quella che fugge, disposta a passare il mare con ogni tipo d’imbarcazione per salvare la pelle. E che noi chiamiamo impropriamente "clandestina", ignorando l’ammonizione della lettera agli Ebrei: «Non dimenticate l’ospitalità, perché alcuni, praticandola, hanno ospitato senza saperlo degli angeli».
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