martedì 9 giugno 2015
​Così una buona integrazione può far bene allo sviluppo
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In molti Paesi europei gli immigrati, e spesso anche i loro discendenti, risultano sovrarappresentati in pressoché tutte le categorie svantaggiate: dai drop out scolastici ai disoccupati, dai poveri ai soggetti a rischio di esclusione sociale. Ciò ne fa, per un verso, testimoni viventi di quanto non ha funzionato nelle politiche per l’inclusione sociale e l’empowerment individuale, decretando il sostanziale fallimento dell’ambizione storica delle democrazie europee: quella di costruire società fondate sull’uguaglianza e la meritocrazia.  Al tempo stesso, però, questa condizione di svantaggio strutturale è l’esito delle contraddizioni di un modello che ha finito col premiare soprattutto la disponibilità degli immigrati a svolgere i lavori a più bassa retribuzione e con minore gradiente sociale, relegandoli in posizioni che non favoriscono il mantenimento della loro occupabilità nel tempo, né la loro capacità di sostenere i percorsi scolastici e lavorativi dei figli. Avendo eretto l’assioma della complementarietà – ovvero la convinzione che gli stranieri ci 'servano' per fare i lavori che 'noi' non vogliamo più fare – a criterio indiscusso sul quale fondare l’accettazione sociale degli immigrati, l’Italia costituisce l’esempio forse più emblematico dei limiti dell’approccio europeo.   Non a caso, come si può facilmente constatare, l’immigrazione e l’occupazione degli stranieri hanno continuato a crescere perfino durante i mesi più bui della recessione, consolidando quel modello d’integrazione di basso profilo, interessato più alle convenienze nel breve periodo – prima fra tutte la contrazione del costo del lavoro – che alle esigenze di riproducibilità nel tempo del nostro modello di sviluppo. Prova di questo sono un tasso di overqualification degli stranieri, cioè di competenze superiori rispetto al lavoro svolto, che dopo la Grecia è il più alto in Europa, così come l’incidenza particolarmente drammatica del lavoro irregolare. Questi fenomeni non sono tanto imputabili alla xenofobia dei datori di lavoro, quanto coerenti con un mercato che negli ultimi anni ha conosciuto un generale degrado della qualità complessiva dell’occupazione e un’ulteriore riduzione della richiesta di personale qualificato. D’altro canto se fino a poco tempo fa la discriminazione che colpiva gli immigrati poteva essere rubricata come problema di equità sociale, oggi il loro peso demografico nella 'vecchia' Europa ne fa una questione decisiva per la tenuta democratica e la competitività dell’economia. In altri termini, la 'miopia' dell’approccio europeo non ha soltanto generato fenomeni di svantaggio ed esclusione, ma ha anche comportato un sottoutilizzo di quel potenziale straordinario che l’immigrazione rappresenta per le società europee in termini di sviluppo economico, sociale e civile. Di qui l’esigenza di 'reinventare' l’approccio europeo all’immigrazione, agendo sia sul piano delle politiche migratorie, sia soprattutto su quello degli orientamenti dei molteplici attori coinvolti nei processi d’integrazione, a partire dagli stessi immigrati, spesso inclini a emulare modelli migratori che sviliscono il proprio capitale umano e inibiscono una piena partecipazione alla vita delle comunità di residenza. Rompere il circolo vizioso che oggi impedisce la valorizzazione delle competenze degli immigrati può essere un primo passo in questa direzione. Così come trasformare la loro crescente presenza negli organici aziendali in un asset competitivo, specie per le aziende che vogliano intercettare nuovi segmenti di mercato, rafforzare la loro internazionalizzazione, migliorare la capacità di affrontare situazioni complesse. Scoprendo che il migrante, proprio in ragione della sua diversità – che è poi unicità – è l’archetipo di una società sempre più 'mobile' ed eterogenea, dove i percorsi di vita e di lavoro sono via via meno prevedibili e lineari, ma proprio per questo custodiscono una ricchezza di competenze ed esperienze che attendono di essere messe a frutto. Imparando a riconoscerle e valorizzarle, il sistema delle politiche del lavoro e dell’occupazione potrà realizzare un enorme salto di qualità nella capacità d’intercettare bisogni disattesi, arricchendo la dotazione di capitale umano delle nostre economie locali. Allo stesso modo le aziende troveranno l’opportunità di diventare sempre più organizzazioni 'inclusive', capaci non solo di attrarre nuovi talenti, ma anche di creare ambienti di lavoro che stimolino la produttività individuale dei lavoratori, il loro senso di benessere e i processi di apprendimento collettivo. Alcune delle esperienze più innovative in Europa e in Italia per un salto di qualità del modello di integrazione degli immigrati saranno presentate giovedì 11 giugno all’Università Cattolica di Milano, in occasione delle conferenza di chiusura del progetto di 'Diverse', iniziativa internazionale di ricerca e intervento dirediretta dal Centro «Wwell» della Cattolica con 14 partner di 10 Paesi europei.   Quella che le società europee hanno di fronte è una sfida prima di tutto di ordine culturale, che incida sulla percezione comune degli immigrati, oggi rappresentati o come lavoratori duttili e a buon mercato o come poveri bisognosi di aiuto e assistenza. Incoraggiare la loro partecipazione alla vita sociale, civile e politica diventa allora un aspetto fondamentale per correggere un altro limite del nostro modello di integrazione, quello che ha fatto del lavoro la fonte principale, se non unica, di legittimazione dell’immigrazione. Ma alimentando così una concezione parziale e distorta della membership a una società, tanto più rischiosa nel momento in cui una quota considerevole di immigrati si appresta a varcare il recinto della nazione acquisendo lo status di cittadino. Promuovere il coinvolgimento nelle attività del volontariato organizzato è, in questo scenario, un obiettivo strategico. Al di là delle polemiche che hanno accompagnato la proposta di impegnare i richiedenti asilo in lavori socialmente utili, il volontariato – quando è davvero una scelta volontaria – è senz’altro una delle eredità più nobili e distintive della civiltà europea, che merita di essere lasciata in dote alle giovani generazioni: tanto quelle native, quanto quelle che lo sterile linguaggio istituzionale definisce cittadini di 'Paesi Terzi'. L’opportunità che si presenta è quella di tracciare la strada per una nuova idea di appartenenza e di cittadinanza: non uno status concesso dall’alto, ma un processo generativo che si alimenta della partecipazione alla costruzione del bene comune e che si affida, prima ancora che alle decisioni più o meno arbitrarie delle autorità di governo, all’iniziativa e al protagonismo della società civile. Qui sta la buona notizia, ma anche l’impegno comune che ci attende.
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