venerdì 3 febbraio 2012
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Chi sbaglia paga, è un principio sacrosanto. Tutti i giorni lo applichiamo, quando c’è da stabilire dov’è la ragione e dov’è il torto, dov’è la colpa e dov’è il danno. I tribunali ci sono per questo, appunto per giudicare, riparare, risarcire, far pagare gli sbagli, com’è giusto che sia. Ma quando a sbagliare sono loro, sono i giudici, e fanno danno proprio col loro mestiere, devono rispondere o no? Certo che sì, certo che devono rispondere. E non c’è nessun problema, nessuno dico, di fronte a una condotta infedele, a una ipotesi accertata di dolo, di colpa grave, di negligenza inescusabile.Il problema nasce però, in modo immanente, quando si accusa un giudice di avere «sbagliato il giudizio». Giudicare, lo sappiamo, è attività umana, e gli uomini possono sbagliare, e il loro sbaglio far danno.Proprio per rimediare agli errori delle sentenze ci sono i gradi di Appello e di Cassazione. Peraltro l’attività non cambia natura, al cambiare del grado: sempre giudizi umani sono. E sul piano dell’assoluto nessuno può dire in anticipo se una sentenza ribaltata è una correzione o un guasto. Chi vuole "giudicare un giudice" per dire che la sua decisione è sbagliata, e fargliela pagare, deve sapere che fatalmente questo giudizio di colpa è rimesso a un altro giudice, che potrà essere accusato di sbaglio colpevole, e sottoposto a sua volta eccetera. Una selva di spade.Credo sia questa la ragione per cui, dopo il referendum del 1987, fu introdotto un sistema che affermò la responsabilità dei giudici per dolo o colpa grave o diniego di giustizia (cioè grave negligenza), e stabilì il diritto al risarcimento del danno. Ma nei confronti dello Stato, prima. Con una sorta di "presa diretta" tra la funzione giudicante e lo Stato, che fronteggiava direttamente la pretesa di chi avesse patito danno per quelle colpe. Poi, una volta soddisfatta la parte offesa, se la vedeva internamente col giudice responsabile, falciandogli lo stipendio. È la legge n. 117 del 1988.Ieri la Camera dei deputati, mentre discuteva la legge comunitaria, ha votato un emendamento che introduce la responsabilità dei giudici in modo da inchiodarli direttamente e personalmente al risarcimento, e non più dietro lo scudo dello Stato. È un segnale che impensierisce, per il suo aspetto emotivamente collerico. Il proponente dice che è per giustizia, ma sotto c’è una venatura di ostilità. In astratto può essere giusto che per quel tipo di errori (dolo, colpa grave, diniego di giustizia) i giudici paghino in diretta; ma non è questo il punto, idoneo soltanto a spostare il problema nel campo assicurativo, dove una polizza collettiva acconcia non costerebbe che qualche spicciolo quotidiano, meno di un caffè. Il punto è in un’altra variante introdotta: il giudice pagherebbe per i casi di «violazione manifesta del diritto». Che saggio e virtuoso principio, che non fa una piega, o meglio non la farebbe se il giudicare fosse simile a un compito di geometria.In realtà, l’esperienza giurisprudenziale si orienta con la bussola intepretativa sempre accesa, attenta al lessico delle norme (spesso caotico), al senso (spesso ambiguo), ai principi ispiratori dell’ordinamento (cui restare fedeli), alla inesauribile varietà delle fattispecie vissute. Naturalmente ciò richiede onestà intellettuale, fedeltà al principio di sottomissione alla legge, ma anche il coraggio di una libertà interiore, sciolta da tentazioni personalistiche, come pure da omologazioni preventive. È un tema da ridiscutere a fondo, da non sciupare.
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