sabato 5 maggio 2012
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Comincia oggi. In Danimarca, perché l’Italia spesso è un’idea come un’altra. E lo sport globalizzato non ha tempo (né voglia) per eccepire. C’entra poco o nulla la favoletta danese del Paese delle biciclette: nemmeno Andersen avrebbe il coraggio di raccontarla. Il denaro conta. E se Herning, graziosa (dicono) cittadina dello Jutland, a 300 km da Copenaghen, di soldi ne ha offerti parecchi – 3,5 milioni di euro (dicono) – per ospitare il prologo e le prime due tappe, il problema al massimo è suo. Non di chi il 95° Giro d’Italia lo organizza e sentitamente ringrazia. Quello che invece nessuno dice è cosa resta oggi del ciclismo. Probabilmente perché è una risposta senza domanda. Confusa e alterata dall’idea profondamente diversa che oggi abbiamo di questo sport. Almeno dal momento in cui il popolo pedivellatore scende dal triciclo e accende la tv. L’attesa dell’impresa, più emozionante dell’impresa stessa, è diventato scetticismo nei confronti di qualsiasi risultato. Il gusto per la sfida si è spostato a disgusto per i gradi di giudizio: non estetico, purtroppo, ma giuridico. E la passione per i campioni e le salite è scivolata nell’osservazione post-prandiale all’ora della diretta tv di un magma indistinto di atleti, forse finti e forse umani, che vincono con l’asterisco (tipo Contador) per poi cedere la vittoria ad altri da asteriscare (tipo Scarponi). Eppure il Giro d’Italia arriva una volta all’anno per ricordarci che il ciclismo non è meno credibile del calcio o del tennis. Discipline in cui l’antidoping fa più ridere di una barzelletta ben raccontata. E dove gli sponsor sono leggermente più potenti del piastrellista che si è fatto da sé, ma che per fortuna esiste e nonostante tutto ancora appiccica il suo nome sulle maglie sudate di chi corre per arrivare. Dove, è sempre più difficile capirlo.Il ciclismo non ci emoziona più da anni, distrutto dal dubbio cronico che lo avvolge, ma la sua Italia è sempre più pulita di quella reale. O almeno, di certo non peggiore. E la gente che aspetta per ore il passaggio di un gruppo di semisconosciuti ci ricorda, nel bene e senza dover arrossire, quella che qualche decennio fa si stupiva del passaggio di un aereo. Sarà retorico, ma se ci togliessero anche questo sarebbe davvero la fine. Quella, la bicicletta se la è già scritta da sola. Per molti di noi, il ciclismo è finito il 5 giugno del 1999 quando a Madonna di Campiglio vennero resi noti i risultati delle analisi di Marco Pantani, con globuli rossi ed ematocrito superiori al consentito. Un Giro mortale, l’ultimo. In quel posto, su quei tornanti, si sono bucate le gomme, le illusioni e Pantani stesso, straordinario antieroe positivo. Sembrava tutto tranne che un atleta, tutto tranne che un vincente, tutto tranne che un ciclista professionista. Eppure, a parte i valori ematici di un certo tipo, aveva qualcosa dentro che lo sollevava dal terreno insieme alla sua bicicletta quando decideva che era il tempo di chiudere il gioco. Qualcosa che non si compra in farmacia.Sono passati otto anni dal giorno tragico che si è portato via per sempre Pantani e le sue colpevoli debolezze, e forse tutta la verità ancora non è stata scritta. Ci resta un Giro, un altro, senza di lui. E senza l’illusione che si portava sul manubrio. Accontentiamoci di una sola certezza: quella di uno sport così onesto da perseguire la disonestà anche contro i suoi stessi interessi. Se poi c’è del marcio in Danimarca, lo incasseremo con il solito disgusto e sempre meno sorpresa. Fino ad allora, teniamoci le favole. Quelle non fanno mai male.
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