giovedì 11 settembre 2014
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​Oggi le seppelliscono a Bukavu, in Congo. E poi i loro corpi rimarranno per sempre nell’Africa che hanno amato. Olga, Lucia e Bernardetta volevano restare fino alla fine nella terra della missione – come se in tanti anni il loro cuore avesse messo le sue radici laggiù. È un fatto comune fra i missionari: per quanti affetti possano avere ancora nel Paese natale, col tempo si compie in loro una trasformazione, per cui la patria, la vera, è in quei luoghi remoti e stranieri in cui sono approdati un giorno, tanti anni fa. Quante volte, incontrando un vecchio missionario, gli abbiamo sentito dire: «Io voglio morire qui», con la fermezza di chi sa che a quel luogo, a quella gente in realtà ormai profondamente appartiene. E se, invece, una malattia li costringe a rientrare definitivamente, avverti in loro la malinconia degli esuli. Come un anziano sacerdote da tutta la vita in Africa, moribondo di cancro, che incontrammo anni fa nella casa madre dei comboniani a Verona. La sua faccia consunta dagli anni e dalla malattia sembrava quella di un Cristo in croce, le parole gli venivano a fatica, intervallate da lunghi sfiniti silenzi: «Avrei voluto morire laggiù, nella "mia" terra. Ma ormai così ridotto ero solo di peso...».E di fronte a quel prete come oggi, nella morte delle tre saveriane, di nuovo si fa strada lo stupore di chi è, sì, credente, ma ben lontano dalla fede di questi semplici, miti giganti. Hanno lasciato tutto, a vent’anni, per trasferirsi dopo interminabili viaggi in luoghi sconosciuti e spesso attraversati da guerre sanguinose. Nel lento corso del tempo hanno seminato la parola di Cristo, non fermandosi davanti a pericoli, malattie, povertà. Come uomini e donne fra noi segretamente diversi, stranieri. Trascinati da una forza misteriosa e fedele, dentro la quale la logica "normale" è capovolta: e non si bada alla riuscita, al successo, o al bene che in cambio del proprio fare si riceve.È, in fin dei conti, una logica scandalosa, agli occhi del mondo, quella di Olga, Lucia, Bernardetta. Partite dall’Italia giovanissime, e poi per tutta la vita fra i popoli d’Africa. In quella terra dove già la vegetazione, la fauna, la luce del sole, tutto è più selvaggio, più grande, più estremo che da noi; e dove un occidentale, all’inizio, si guarda intorno sbalordito e spaurito. Eppure, in questa terra arcana e altra si radicano, i missionari, con radici poderose. È una questione di amore: vivendo in quei villaggi, vedendo nascere e crescere i bambini e accompagnando a morire i vecchi, è come se, nell’annuncio di Cristo, davvero si aprisse loro nel cuore un’altra stanza, più grande, e non angusta come spesso è invece lo spazio del nostro cuore. Dentro allo scandalo di questo mondo capovolto, la notte di tenebra e sangue di Bujumbura non contraddice niente. Nella tragedia, nello strazio si compie paradossalmente il cammino cominciato dalle tre sorelle, tanti anni fa, quando partirono ben sapendo di dover mettere in conto anche la Croce. Sapendo certo a memoria quel verso del Vangelo di Giovanni: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto».Nella terra dell’amata Africa sono sepolte oggi Lucia, Olga, Bernardetta, come già tanti missionari prima di loro. Anche questo segno colpisce, nella sua carnalità: hanno voluto rimanere in Africa con le loro ossa, in quella terra sono state gettate, come un seme. Così che ciò che agli occhi del mondo appare solo morte e sconfitta , nella logica capovolta di questi strani uomini è una pagina di Passione e calvario, eppure non l’ultima parola. Per altre vie che il mondo non conosce si allargano, non visibili agli occhi, cieli e terre nuove da quei semi sepolti: nell’incommensurabile scandalo della Parola per cui occorre passare dentro la notte della morte, per produrre frutto.
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