giovedì 22 aprile 2021
J'accuse dei genitori di Giulio dopo le ultime rivelazioni sulla sua morte in Egitto / IL VIDEO
Regeni: «Dettagli macabri e nomi di testi: che razza di giornalismo è?»
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«Amarezza e sconvolgimento». È quello che esprimono Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, il ricercatore sequestrato, torturato e ucciso nel 2016 in Egitto. Lo fanno con una dignità che tutti dovremmo ammirare, ma anche con la forza di chi, malgrado il dolore, guarda dritto negli occhi e dice cose chiare. Questa volta non denunciano i torturatori o chi li protegge, ma alcuni cronisti, anzi «un modo di fare giornalismo spregiudicato, morboso e assolutamente irrispettoso e lesivo del lavoro che abbiamo fatto», accusa papà Regeni in un breve video condiviso dal loro avvocato Alessandra Ballerini. Un video che dovrebbe imbarazzare noi giornalisti o almeno far discutere. E invece nulla. Pochissime condivisioni e nessuna testata che oggi, online, lo abbia ripreso o citato.

Eppure le pacate ma forti accuse di mamma e papà Regeni sono precise, circostanziate.

Denunciano la pubblicazione di «atti d’indagine il cui contenuto è delicatissimo» e che «rischia di mettere a repentaglio testimoni, consulenti e avvocati, oltre ad intralciare il nostro percorso per arrivare alla verità».

Non solo. Paola Regeni, con voce chiara ma immaginiamo con quale sofferenza, afferma che «non è certo continuando questo stillicidio, raccontando ogni giorno in modo sempre più macabro tutte le torture che Giulio ha patito, che ci aiutate e ci state vicini». Poi aggiunge quasi una lezione di deontologia giornalistica.

«Nel momento in cui i genitori vi dicono che hanno visto sul volto del loro figlio tutto il male del mondo e nel momento in cui la procura vi ha detto e ha scritto che Giulio è stato torturato per 8-9 giorni, quali particolari, quali immagini servono in più?».

Nei giorni scorsi alcune importanti testate hanno, infatti, pubblicato macabri particolari delle torture, citando i testimoni che li hanno riferiti, coi nomi di copertura assegnati dai magistrati italiani, ma purtroppo ugualmente e pericolosamente identificabili. E questo nel pieno delle fasi più delicate e decisive dell’inchiesta. Eppure proprio i genitori di Giulio, appena quattro mesi fa, ospiti di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa" su Rai3, avevano fatto un accorato appello proprio ai giornalisti. «Rispettate noi e nostro figlio, non continuare a saccheggiare i documenti. Continuate a sostenerci, ma vi chiediamo di smettere di diffondere dettagli sulle torture subite da nostro figlio durante la prigionia». Non sono stati ascoltati.

Ancora una volta siamo chiamati alla responsabilità del "cosa" e del "come" pubblicare le notizie. Una vecchia questione. Tanti anni fa, partecipando a un dibattito con alcuni colleghi, sentiì un grande cronista di giudiziaria affermare con convinzione «io pubblico tutto quello che mi arriva». La risposta gliela dà papà Regeni. «È gravissimo che questi atti siano stati consegnati a giornalisti e che i giornalisti li abbiano pubblicati, perché molti altri giornalisti, che pure hanno questi atti, hanno deciso come scelta etica, morale e deontologicamente corretta di non pubblicarli». È una scelta che anche qui ad "Avvenire" abbiamo fatto, scegliendo di non pubblicare ciò che può offendere, provocare ulteriore dolore o vanificare il lavoro degli inquirenti.

Dobbiamo tenere a mente, come scrisse papa Francesco nel 2018, in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni, che il giornalista «ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone». Niente di più lontano dai «macabri particolari» o dalla rivelazione delle testimonianze. Lo dicono con chiarezza mamma e papà Regeni, invitando i giornalisti «a fare le indagini e non a disvelare e pubblicare le indagini fatte da altri».

Come rispondiamo? La libertà di stampa è preziosa, per questo non va usata in modo «spregiudicato, morboso e assolutamente irrispettoso e lesivo». Grazie Paola e Claudio Regeni per averlo detto come questa chiarezza e questa dolorosa forza.

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