sabato 9 agosto 2014
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Non poteva durare di più e infatti non è durata nemmeno le 72 ore previste. Ieri le armi hanno ripreso a intonare la loro macabra sinfonia a Gaza e, a tremendo monito sulle vere vittime di questa guerra, il primo caduto di cui si è avuta notizia è un bimbo palestinese di 10 anni: Ibrhaim Zuheir al-Dawawesh. L’accordo, raggiunto con estrema fatica, per un temporaneo cessate il fuoco "per motivi umanitari" rappresentava il classico cerotto su una ferita devastante. Ricordava quelle tregue talvolta concesse alle città assediate del lontano passato, per far sì che gli abitanti potessero fermarsi un attimo a riflettere sull’inutilità di continuare la lotta. Ma non sono mai stati i sudditi a decidere se continuare o interrompere le guerre. E Hamas, il sovrano assoluto della Striscia, ha ritenuto di non avere altra possibilità che riprendere i combattimenti, di fronte alla constatazione che nessuna delle sue richieste era stata accettata. Per quanto i suoi metodi di governo e di lotta siano detestabili, Hamas ha messo al centro delle sue richieste la fine di quello strangolamento economico della Striscia che è in atto dal 2006. Apertura dei valichi, estensione dei diritti di pesca, realizzazione di un porto e persino di un piccolo aeroporto che riapra Gaza al mondo e il mondo a Gaza. Questi erano e restano i principali obiettivi di Hamas, accanto alla liberazione dei suoi militanti prigionieri. Solo quest’ultimo riguarda l’organizzazione in sé, tutti gli altri hanno a che fare con la fine di quell’altro assedio, senza bombe e senza missili, che da otto anni ha reso la situazione della Striscia sempre più inaccettabile. Concederglieli, da parte israeliana, avrebbe significato ratificare la vittoria di Hamas nella guerra con la quale intendeva piutttosto affossare militarmente e politicamente il movimento islamista.Israele pretendeva invece di ottenere in misura totale e permanente al tavolo negoziale ciò che era parzialmente e temporaneamente riuscito a ottenere sul campo di battaglia: lo smantellamento della capacità militare di Hamas, attraverso la consegna dei missili residui e la distruzione dei tunnel, primo passo per una smilitarizzazione di Gaza (dopo quella della Cisgiordania), ma senza che ciò avvenisse contestualmente alla nascita di uno Stato palestinese indipendente. Inoltre – in questo appoggiata dall’Egitto di al Sisi e dai Paesi occidentali – chiedeva che i valichi, una volta riaperti, fossero affidati al controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Per Hamas si trattava di condizioni inaccettabili perché avrebbero implicato la sostanziale rinuncia del movimento palestinese a lottare per una Palestina libera. È stata proprio l’ostinazione delle parti a voler cogliere diplomaticamente quella vittoria totale sfuggita sul campo di battaglia che ha reso sostanzialmente nulle le chance di prolungare la tregua, trasformandola da "umanitaria" in "politica". In questo, l’azione mediatrice dell’Egitto e la stessa posizione della gran parte dei Paesi europei non è stata di grande aiuto. Sia il regime egiziano sia i governi occidentali, in realtà, non hanno fatto mistero di ritenere che il solo esito "positivo", in termini politici, della tremenda mattanza avrebbe potuto essere il ridimensionamento di Hamas e il rafforzamento dell’Anp. Ma questo ha reso Hamas ancora più diffidente, ne ha irrigidito le posizioni e, oltretutto, rischia di squalificare l’Europa come candidata credibile al ruolo di mediatore accettabile in un eventuale futuro negoziato più complessivo. Eppure non si trattava di concedere una piena e formale legittimità politica ad Hamas, ma di prendere atto che quel soggetto esiste ed è rappresentativo (avendo vinto le uniche elezioni competitive tenute in Palestina sotto la supervisione internazionale nel gennaio 2006) e con esso bisogna fare i conti se si vuole cercare una soluzione politica non solo al conflitto arabo-israeliano ma persino all’ultima guerra di Gaza.
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