martedì 9 novembre 2010
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Domenica è stato giorno strano a Barcellona. Addirittura alcune organizzazioni sindacali hanno pensato di indire uno sciopero, così da non fare funzionare alcune linee ferroviarie. Uno sciopero domenicale è una cosa inedita. Sì, un giorno strano. Perché a Barcellona c’eran sì le "solite" cose: le ramblas piene di gente, la luce autunnale e vivida del mare, la ressa verso i negozi ufficiali del Barça con le maglie di Messi. E però c’era il Papa, c’era la festa della Sagrada Familia. Un evento popolare. Ma un evento di pietra e storia, di invenzione e carità, che dura da più di un secolo. Ormai chiamiamo "evento" anche l’inaugurazione di una modesta bottega di moda, di parrucchiera o una palestra. Tale è la fame di "eventi" veri che la nostra vita annoiata patisce. Ormai nel gergo delle feste e del mondano è diventato tutto "evento", forse perché nulla lo è veramente. Qui invece l’evento c’è. Da un secolo e passa. E ora l’evento della sua consacrazione. Una chiesa che, secondo la previsione di Gaudí, avrebbe attraversato attacchi, violenze, morte e incomprensioni, ma sarebbe stata ultimata da Giuseppe. E lui intendeva il padre della Sacra Famiglia. Ma non è sfuggita né al cardinale di Barcellona nel suo saluto né al Papa stesso la singolare coincidenza che a consacrare questa opera vertiginosa e gentile è stato, dopo oltre un secolo, un vescovo di Roma che si chiama Joseph. Un giorno strano, le strade si sono affollate di gente animata dal desiderio di esserci in questa giornata storica. Catalani, ma anche gente da ogni parte di Spagna e, tra i tanti europei, molti italiani. I turisti si sono mischiati alla folla. C’erano anche i manifesti in giro con scritto "Io non ti aspetto", rivolto al Papa. E altre cose meno decenti. Ma si sa, Gesù Cristo non era uno che tendeva a unire le persone per forza, smussando le differenze. Se uno non aspetta il Papa fa bene a dirlo. E chi invece lo aspetta ha fatto bene a essere lungo le vie di Barcellona. L’unanimismo è spesso indifferenza, e Gesù non lasciava indifferenti. E così chi c’era ha potuto vedere un altro evento. Sì, insomma, se uno guardava bene, si guardava un po’ intorno, vedeva un evento dentro l’evento. E siccome domenica scorsa era di campionato (per gli spagnoli campioni del mondo è cosa importante, c’era pure il derby a Madrid), diciamolo con linguaggio calcistico. L’evento nell’evento è che Gaudí ha battuto Zapatero due a zero. Perché il premier e quel che vuole rappresentare è stato sconfitto dal mite alacre Gaudí. Bastava guardarsi intorno per capire che raccolta intorno alla Sagrada Familia non c’era una Spagna retriva e imbalsamata. Vicino a me, ad esempio, c’erano alcune ragazze vestite alla moda, carine e attente nel seguire le preghiere e i canti. E tanti i volti di giovani che sono impegnati non solo ad andare a zonzo con una bottiglia in mano. Insomma, la modernità non è quella propaganda anticlericale che vorrebbero far credere Zapatero e quelli come lui. Come se ci fosse un’etica moderna da una parte e una superata, che coincide con la Chiesa. Come se ci fosse una bellezza moderna da una parte e una vetusta simboleggiata dalla Chiesa. No, Gaudí è più moderno del laicismo. Questa Spagna commossa perché ora la Sagrada Familia è davvero una chiesa, che proprio come tale continua a dover essere costruita, ha dato un segno al mondo intero. Un segno non di tipo politico. Ma di quel genere che segna la storia profonda del mondo: qualcosa in cui si incontrano l’arte e il senso religioso dell’uomo. E, come fu scritto nella pergamena che sta nella prima pietra della chiesa, tutto questo avviene per supplicare Dio «todopoderoso». Contro ogni sempre insorgente tentazione – personale e politica – di sentirci noi, così piccoli per le vie di Barcellona, gli onnipotenti.
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