giovedì 9 gennaio 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
Caro direttore, 
il 7 gennaio è apparsa una lettera in cui l’autore sosteneva che è dovere di uno Stato democratico garantire ai cittadini "pane e casa". Mi domando, è vero? Può essere considerato dovere dello Stato quello di mantenerci? E ciò a quali costi? Con quali limiti? Dove prendere le risorse necessarie? Non si rischia di incentivare l’immobilismo sociale e il lavoro nero? Se fosse vero, perché solo i cittadini? So di entrare in un argomento spinoso e complesso, ma mi sembra che spesso, purtroppo anche da parte di cattolici, su questi argomenti ci sia troppa superficialità.
Luca Pirola
Nella sua riflessione come in quella precedente del lettore Taliani, caro signor Pirola, riecheggia il dibattito che si sta sviluppando anche in Italia a proposito del cosiddetto “reddito di cittadinanza” o di un più mirato “reddito di ingresso” (in varie forme previsti da molti altri Paesi europei). Credo che una questione così importante non si sia proposta e quasi imposta per caso o per superficialità tra i politici e nell’opinione pubblica, ma perché questo tempo difficile di maggiore precarietà lavorativa e di diffuso impoverimento ha fatto risaltare ancor di più punti di forza e di debolezza del nostro attuale sistema di tutele sociali, quello che ormai tutti – con termine inglese PER – chiamiamo Welfare. La proposta Acli-Caritas di un “reddito di inclusione sociale” (Reis) è nata per questo, nello scorso novembre. E per questo attorno a essa ha preso forma l’«Alleanza contro la povertà in Italia» alla quale aderiscono associazioni cattoliche e laiche nonché gli organismi di coordinamento e di rappresentanza tra i diversi Enti locali. Detto questo, gentile signor Pirola, trovo assennati i suoi interrogativi, che infatti so essere stati considerati con attenzione sia da chi ha immaginato e strutturato l’idea del Reis (presentato con un suo piano di sostenibilità), sia dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Enrico Giovannini che su questi argomenti e su queste prospettive ha speso, pur nella consapevolezza delle attuali difficoltà di manovra, più di una impegnativa parola. Un’ultima annotazione: ha ragione, non si può correre il rischio di «incentivare l’immobilismo sociale e il lavoro nero» con politiche puramente assistenzialistiche, però ben si possono avviare azioni tese a contrastare emarginazione e ingiustizie e far sì che non sia solo un’idea astratta quella dello Stato garante di «pane e casa» per i suoi cittadini. Se non servisse a garantire condizioni di vita minimamente degne a tutti coloro che fanno parte di un consorzio civile, uno Stato a che cosa servirebbe? Ad auto-mantenersi? A tutelare i già tutelati? A tassare così tanto il lavoro e la casa da mettere a rischio impiego e tetto non solo per i poveri, ma anche per tanti appartenenti al cosiddetto ceto medio? Certo, ci dev’essere una proporzione tra le risorse disponibili e i servizi e i sostegni assicurati. E perciò non ci si può stancare di reclamare da politici e burocrati un’attività amministrativa condotta con quella che un tempo di sarebbe definita la “diligenza del buon padre di famiglia”. Ma è indispensabile pure un sistema fiscale davvero equo, progressivo e con priorità ben chiare, l’unica via per rispettare i beni particolari e far crescere il bene comune. E questi sono esattamente i compiti che Parlamento e Governo sono chiamati a svolgere nell’interesse di noi tutti.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI