mercoledì 23 settembre 2015
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​Nell’itinerario lungo i continenti, che il Papa va disegnando con i suoi viaggi, c’è una costante che emerge con sempre maggiore forza e che nella visita a Cuba e negli Stati Uniti è particolarmente evidente. Francesco sta infatti toccando nazioni e luoghi simbolo di una consolidata o rinnovata volontà di riconciliazione tra i popoli, i gruppi religiosi e gli Stati. Quasi che con la sua presenza voglia piantare su un ideale mappamondo della pace le bandiere di una esemplarità di comportamento da indicare a tutti e da estendere quindi, si spera progressivamente quanto inesorabilmente, anche a quelle regioni che per motivi diversi faticano a mettersi alle spalle un drammatico orizzonte di guerra e di violenza. È così in questa visita pastorale (con innegabili ricadute geopolitiche), distribuita tra la “Perla dei Caraibi” e il suo gigantesco vicino nordamericano, freschi dei ritrovati rapporti diplomatici, cui ha contribuito – come è noto – il Pontefice in persona. Ma è stato così in precedenza a Strasburgo – una delle “capitali” di quell’Europa che dopo il II Conflitto mondiale proprio grazie alle istituzioni comunitarie ha saputo mantenere il suo «mai più la guerra» – come nell’Albania dell’armoniosa coesistenza (dopo 50 anni di dittatura atea) tra cristiani e musulmani. È stato così nella Sarajevo rinascente dalle sue ferite belliche, come nello Sri Lanka dove buddisti e tamil provano a vivere di nuovo insieme, dopo essersi ferocemente combattuti; e persino nella straziata Terra Santa che proprio grazie a una straordinaria iniziativa di pace del Papa, ha vissuto nel giugno del 2014 una indimenticabile giornata di dialogo. Francesco con i suoi viaggi sta svelando al mondo l’inedito “atlante della pace possibile”, che costituisce anche un messaggio di grande speranza per tutta l’umanità. È vero che è stato proprio lui a parlare a più riprese di una «terza guerra mondiale a pezzi», ma questa denuncia non è per niente in contrasto con l’itinerario altamente simbolico disegnato finora dal suoi pellegrinaggi in Asia, Europa e Americhe (l’Africa seguirà a novembre). Al contrario, proprio perché il Papa valuta molto alto il pericolo derivante dai diversi focolai di conflitto oggi in atto, egli si adopera a ogni livello per scongiurare il rischio del loro allargamento o addirittura di una tragica saldatura. Il messaggio che viene da questa prima parte del viaggio a Cuba e negli Stati Uniti (e in attesa del discorso all’Onu e al Congresso degli Stati Uniti, altre due tappe fondamentali dell’itinerario papale) è, dunque, chiarissimo. Innanzitutto, «se il mondo è assetato di pace», come ha detto Francesco appena giunto a L’Avana, questa sete può essere placata. E la recente riconciliazione tra i due Paesi meta di questa visita sta lì a dimostrarlo. In secondo luogo la pace va costruita con pazienza e con fiducia. Proprio come ha fatto la Chiesa di Cuba in tutti questi anni, mostrando con i fatti quello che il Pontefice ha poi confermato con le sue parole: «Non si può abusare dei concittadini». «Vanno servite le persone e non le idee». Queste ultime, infatti, sono spesso «progetti che possono apparire seducenti, ma che si disinteressano del volto di chi ti sta accanto». Ecco, in estrema sintesi, ciò che Francesco ha detto a Cuba sta proprio in questa denuncia delle ideologie – di tutte le ideologie, anche quelle che distorcono l’immagine di Dio ammantandosi di vesti pseudoreligiose – come le prime e vere nemiche della pace. Lo abbiamo visto nel ’900, rischiamo di riassistere allo stesso triste “spettacolo” anche nell’attuale frangente.Il Papa, invece, guarda alla grande famiglia umana (dove proprio come in un nucleo familiare, secondo l’espressione usata ieri, «ognuno ha bisogno degli altri») e tenendo come bussola quella fede in Cristo che ha dimostrato di essere l’unica vera forza rivoluzionaria («una rivoluzione della tenerezza», ha sottolineato nella Messa di Santiago) in grado di cambiare la storia. Dei singoli come dei popoli.
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