Fine vita, dolore, saggezza della Chiesa: che cosa vuole dire «morire in pace»
domenica 14 gennaio 2018

Gentile direttore,

mi riferisco all’articolo del 10 gennaio, l’intervista a Italo Penco. Capisco l’importanza di distinguere tra suicidio assistito e cure palliative su cui la vicenda della signora Ripa di Meana ha creato confusione. Tuttavia mi colpisce che appaia solo l’idea che con le cure palliative si muore dormendo, spero (ma, alla luce delle tante morti cui ho assistito avendo 71 anni, ne dubito) che non manchi tra i palliativisti la ricerca per far sì che le cure leniscano la sofferenza ma anche permettano di vivere la propria morte! Forse non sarà possibile per il 20% dei malati terminali, ma magari si può diminuire questa percentuale! Sto parlando della ricerca della “buona morte” che non è solo il dormire per non soffrire. Faccio un esempio: so di un’amica che ha “contrattato” con i medici degli intervalli per poter pregare con amici e familiari. Mi rendo conto della “impopolarità” di questa aspirazione in una società che dice «che bello morire senza accorgersene», ma preferisco la lunga tradizione della Chiesa in merito.

Innocenza Laguri


Gentile signora Laguri,

da quando Pio XII intorno alla metà del secolo scorso ha fatto luce con la sua saggezza di Papa e di straordinario uomo di cultura sulle possibilità di un “tempo medico nuovo” (che nel frattempo, come sappiamo, è progredito moltissimo) i cattolici hanno chiaro che tutto ciò che doma il dolore insostenibile e accompagna a una buona morte, anche se abbrevia la vita ha senso cristiano e moralità profonda. Ho scritto “hanno chiaro”, ma forse avrei fatto meglio a scrivere “dovrebbero aver chiaro”... Perché, purtroppo, tutto ciò chiaro non è persino a molti di noi, e per di più viene deliberatamente mistificato e negato dai soliti anti-clericali tesi ad accreditare l’immagine capovolta di una Chiesa “crudele”. Anche per questo ho trovato molto utile che papa Francesco rivolgendosi all’Associazione mondiale dei medici (Wma) riunita per un incontro promosso insieme alla Pontificia Accademia per la Vita abbia richiamato, rinvigorito e ricordato a tutti – credenti e non credenti – il grande magistero della Chiesa in tema di cura e morte: no all’eutanasia, no all’accanimento terapeutico, saggezza e umana misura nell’uso delle macchinose possibilità che la tecnoscienza mette a disposizione di uomini e donne. Lo dico con le parole povere del cronista, non del teologo e neppure del medico, e con grande rispetto per ciò che lei scrive, gentile amica lettrice. Parole che non trovo affatto in contrasto con quanto spiegato («La sedazione profonda non è eutanasia. Il suicidio assistito è una falsa risposta al problema del dolore») da un grande palliativista come il professor Italo Penco. La «lunga tradizione della Chiesa», gentile e cara signora, non impone la sofferenza ad alcuno. Ogni caso è diverso, ma ci sono costanti e l’esperienza insegna. E chi, come me e lei, ha esperienza di cristiana vicinanza a persone giunte all’ultimo traguardo terreno e ormai prossime alla morte, per noi credenti il ritorno alla Casa del Padre, non può dimenticare che, assieme alla somministrazione dei sacramenti, alla preghiera e alla testimonianza di affetto sul filo della memoria, l’unico “gesto” possibile e giusto è quello che lenisce la sofferenza. Non si tratta di «morire senza accorgersene», si tratta di morire in pace.

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