domenica 6 maggio 2012
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L’aggravarsi della crisi economica ha concorso in modo determinante a porre all’attenzione dell’opinione pubblica la questione del finanziamento ai partiti: tema sul quale esiste ormai un’amplissima letteratura e sul quale, ricorrentemente, si svolge un dibattito che rischia di diventare stucchevole perché non si affronta il problema alle radici. Qual è la radice del problema? Non tanto come reperire le risorse, quanto come ridimensionare le spese della politica: come tutte le 'partite contabili', anche quella della politica è fatta di 'entrate' e di 'uscite'; ma, nonostante questo, il problema sembra essere soltanto quello rappresentato dalle 'entrate', e cioè dai cosiddetti 'finanziamenti pubblici' (ma anche privati), mentre in realtà al cuore della questione sta il problema delle 'uscite'. he cosa sta infatti avvenendo, soprattutto da due decenni a questa parte, soprattutto con l’avvento dell’incontrastato dominio della televisione, vero ago della bilancia di ogni competizione elettorale, tanto che chi è fuori del sistema televisivo è di fatto fuori della politica, quale che sia il patrimonio di idee e di valori di cui è portatore? È ormai il mezzo televisivo ad assorbire un’immensa mole di risorse, ora dei partiti, ora dei singoli candidati: con il risultato, inevitabile, di 'premiare' chi ha più risorse da investire in questo ambito. Per far fronte a questo stato di cose, la via scelta dai partiti è stata quella di tentare di aumentare le risorse da destinare a questo specifico investimento, piuttosto che ridimensionare la propria presenza televisiva. E poiché chi detiene il mezzo televisivo, soprattutto quello privato, è ben consapevole del suo potere, non stupisce che il costo delle 'comparse' a vario titolo effettuate – sia in trasmissioni 'pluralistiche' (o pseudo­­tali), sia in forma di veri e propri spot – tenda a essere sempre più alto. Alcune televisioni locali esercitano di fatto una sorta di monopolio e ogni stagione elettorale è, anche per questo, un periodo di 'vacche grasse'.L’'uovo di Colombo' per risolvere la questione è dunque, essenzialmente, la riduzione delle spese di propaganda politica a carico dei partiti, attraverso due vie fondamentali: la prima è quella della destinazione gratuita di spazi nelle reti pubbliche; la seconda è quella dell’imposizione alle reti private di concedere eguali spazi, secondo criteri da stabilire in via amministrativa, insieme con il divieto di pubblicità a pagamento (aperta o mascherata). Si tratterrebbe, evidentemente, di una 'interferenza' nella sfera del privato, ma di un’interferenza legittimata dall’interesse collettivo. Spetterà ai competenti – accettata tale ipotesi di lavoro – individuare le modalità attraverso le quali regolare la materia, soprattutto per quanto riguarda le reti private. Una delle vie da seguire potrebbe essere quella di una draconiana tassazione della 'pubblicità politica' latamente intesa, in misura tale da rendere non più conveniente, per le televisioni private, 'vendere' a peso d’oro alla politica gli spazi a essa assegnati. È evidente che un simile provvedimento darebbe luogo ad 'alti lai' dei difensori della 'libertà di informazione': ma ormai si impone un intervento pubblico per evitare che, grazie alla televisione, ogni miliardario che voglia impegnarsi in politica possa avere in mano le leve del potere mediatico. Negli Stati Uniti questo fenomeno dello strapotere televisivo sta assumendo dimensioni inquietanti, ma anche il caso italiano è al riguardo eloquente. È questo il nocciolo del problema: le spese degli apparati partitici – tolta la grossa 'fetta' della propaganda televisiva – sono relativamente modeste e comunque più facilmente controllabili (a differenza di quanto avviene per i 'monopoli' televisivi, pubblici e privati). Parafrasando il noto detto di Napoleone, «l’intendenza seguirà», il resto verrà da sé.
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