Doppio cognome, finalmente pari i due genitori
mercoledì 9 novembre 2016

Per qualche irriducibile difensore di una certa archeologia paterna, la decisione della Consulta che ha definito illegittima la norma che prevede l’automatica attribuzione del solo cognome paterno al figlio, in presenza di una diversa volontà dei genitori, potrà avere il sapore dell’ennesima prevaricazione contro il ruolo tradizionale della supremazia maschile nella coppia. Ora, al di là del fatto che questa prospettiva asimmetrica è per fortuna tramontata quasi ovunque nel mondo civile, la sentenza che apre finalmente la strada alla possibilità di arrivare in tempi più brevi a una legge che attribuisce ai figli il doppio cognome, va salutata con soddisfazione. Si tratta infatti di una scelta che non solo non va a ledere in alcun modo il bene autentico della famiglia, ma riconosce anche simbolicamente quella pari dignità genitoriale già radicata nelle dinamiche ordinarie della vita familiare e, prima ancora, nella verità biologica. Questo sul piano ideale.

Su quello concreto la questione potrebbe non risultare così limpida. Si tratterà infatti di leggere con attenzione il dispositivo della sentenza per verificare che la strada aperta ieri dai giudici costituzionali vada davvero nella direzione di considerare i cognomi della madre e del padre su un piano effettivamente paritetico. E, soprattutto, di accertare che la sentenza non aggiunga confusione a confusione. In che modo per esempio i giudici costituzionali hanno considerato il testo già approvato dalla Camera il 24 settembre del 2014? Quella norma, su cui tante divergenze si sono accese, ne uscirà rafforzata o indebolita? Nel lungo dibattito giuridico e culturale che da anni investe la questione del 'doppio cognome', con pronunciamenti europei che si sono sovrapposti e intrecciati alle decisioni di casa nostra, sono via via emerse non poche criticità. Il codice civile, all’articolo 6, configura il 'diritto al nome' come dato inalienabile della persona. «Ogni persona – recita il testo – ha diritto al nome che le è per legge attribuito». Ciò significa che la legge individua nel nome, che comprende evidentemente anche il cognome, un tratto identitario della persona. Un diritto alla specificità personale che è unica e irripetibile e che discende direttamente dalla generazione.

Ora, se il fatto di poter attribuire al figlio anche il cognome della madre riflette la realtà concreta della nuova vita, frutto di due discendenze che si incontrano e fondono i propri destini, potrebbe risultare non immediato capire cosa succederà in caso di divorzio. Potrebbe capitare per esempio – e purtroppo capita – che dopo la nascita del primo figlio a cui sono stati assegnati i cognomi di entrambi, la coppia decida di divorziare e il marito si risposi. La nuova moglie che decida di adottare il figlio, potrebbe anche attribuirgli il suo cognome? Ma se il figlio, geloso della propria identità già consolidata – il caso per esempio di un adolescente – non fosse d’accordo? Altro problema. Dopo la prima generazione a 'doppio cognome', quale si perde e quale si mantiene nelle successive? Sarà anche questa una possibilità da individuare caso per caso? Tutta da chiarire anche la questione dell’ordine con cui attribuire il doppio cognome. La legge in discussione in commissione Giustizia del Senato stabilisce che spetti ai genitori decidere liberamente se inserire prima quello della madre o del padre. Se non vi è accordo, ma si intende ugualmente scegliere di esplicitare la doppia discendenza, bisognerà privilegiare l’ordine alfabetico. In ogni caso la scelta, una volta fatta, non dev’essere più cambiata. Altrimenti c’è il rischio che due fratelli possano avere cognomi diversi, con prevalenza dell’uno o dell’altro in modo alternato. E sarebbe evidentemente una deriva inaccettabile. In ogni caso, per l’entrata in vigore della legge – anche ora dopo la decisione della Consulta – bisognerà attendere l’approvazione del regolamento applicativo che dovrà adeguare l’ordinamento dello stato civile.

L’impressione è che un obiettivo largamente condivisibile, quello appunto di tradurre anche nominalmente quell’alterità e quella reciprocità di impegno e di dedizione che riflette il compito dei genitori, possa rischiare di attorcigliarsi in una complessità normativa in cui sono già intervenuti troppi attori. Non vorremmo che per salutare l’uscita dal patriarcato anche in maniera formale – concretamente il passo è stato compiuto da decenni – si finisca per infliggere alle famiglie che si aprono alla generazione, e sono sempre meno, un aggravio di burocrazia e di complicazioni normative. Una scelta che va, come deve andare, nella logica dell’uguaglianza e del rispetto reciproco all’interno della coppia, non può che contare su norme altrettanto trasparenti e fruibili.

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