Giuseppe, Salem e Saber: figli dell'accoglienza, figli di questa terra
domenica 19 agosto 2018

Giuseppe è nato il 9 agosto a Cerignola. Salem e Saber sono nati il 29 maggio ad Aversa. Figli dell’accoglienza, figli della speranza. Figli della nostra terra. Giuseppe è figlio di Peter, ghanese, e Mary, nigeriana. Abbiamo scritto di loro il 3 agosto nell’ultima puntata del nostro reportage sul caporalato: «Lui lavorava in nero a Tre Titoli. Conosce lei tramite Facebook. Scopre che fa la prostituta. Paga la “maman” e la libera. Ora, grazie ai volontari diocesani, non vivono più a Tre Titoli. Lui fa il custode a Cerignola con un contratto regolare. Lei aspetta un bimbo, in arrivo nei prossimi giorni. La vita e l’amore vincono. Grazie a tanti amici». Il nome di uno di loro, Giuseppe Leone, dell’ufficio diocesano Migrantes, è stato scelto dai due giovani per il piccolo. «Ti presento il figlio di quei due ragazzi africani di cui ti ho parlato. Storia a lieto fine per questo figlio acquisito. Lo hanno chiamato come me. Simbolo del legame che si è creato nelle macerie di quel ghetto. Dio benedica grandemente la loro vita», ci ha scritto inviandoci le foto del bimbo assieme alla mamma, stanca ma felice.

Un altro «invasore»? O un figlio d’Italia? Sicuramente la mamma e il papà in Italia hanno subìto troppo sfruttamento: da “clienti”, caporali e padroni. Ma hanno incontrato, per fortuna, anche un’Italia ancora più vera che accoglie, sostiene, abbraccia, vive e fa vivere nelle regole. Che non ha paura del “diverso”, che difende umanità e dignità, soprattutto laddove c’è violenza, sfruttamento, intolleranza. Come per Salem e Saber che in eritreo vogliono dire Pace e Pazienza. Nomi più che simbolici. Mamma e papà, assieme alla sorellina di 9 anni sono arrivati a marzo coi corridoi umanitari della Cei, dopo anni di guerra e campi profughi.

E ora, grazie alla diocesi di Aversa, all’impegno convinto del vescovo Angelo Spinillo e del direttore della Caritas, don Carmine Schiavone, sono ospitati nella parrocchia di San Nicola di Casal di Principe, la parrocchia di don Peppe Diana, il sacerdote ucciso della camorra il 19 marzo 1994. Negli stessi ambienti dove don Peppe già negli anni 90 ospitava migranti sfruttati e vittime di tratta. Perché già allora, prima di tanti, aveva capito il dramma di questi uomini e queste donne. E aveva aperto le porte della parrocchia.

Oggi all’ingresso un bel cartello porta la scritta «Sportello informativo e di segretariato sociale per immigrati “don Peppe Diana”». Il parroco don Franco Picone, vicario generale della diocesi di Aversa, ha raccolto il testimone di don Peppe e tenuto aperte le porte. Così la speranza nasce in queste stanze. Sul lettone i due gemellini sgambettano felici, osservati con tenerezza da mamma, papà, dalla famiglia tutor, Ivana e Nunzio, e dai volontari. Quanto sono diverse queste immagini da tante, troppe, parole “in libertà” di questi giorni.

Parole cupe, dure, di chiusura a prescindere. Anche in bocca a ministri e parlamentari. Giuseppe, Salem, Saber, sono figli della speranza, figli dell’accoglienza, figli d’Italia. Accanto a loro c’è il cuore del nostro Paese. Porte e porti aperti, con amore ed efficacia. Per due settimane di questa estate 2018 abbiamo raccontato storie di sfruttamento, dolore, sofferenza. Ma abbiamo incontrato anche queste belle storie. Ci sono e sono concrete. Vanno conosciute, sostenute, fatte crescere come i tre piccoli, nati italiani da migranti accolti da italiani. Non ci sono solo violenti insulti, preoccupanti intolleranze, inaccettabili sopraffazioni. Ci sono cuori disponibili e sorrisi convinti.

Ci sono grandi mani che stringono manine. Siamo giustamente indignati per i colpevoli ed evitabili patimenti e per le morti di tanti, troppi, piccoli. E a abbiamo nel cuore gli abitini rossi dei piccoli annegati nel Mediterraneo. Giuseppe, Salem e Saber hanno, invece, abitini bianchi, candidi come la vita che auguriamo loro. Senza mai dimenticare chi in Italia non è mai arrivato o non è riuscito a nascere, chi ha perso mamma e papà. Tutti possono stare tranquilli: non sono mai sbarcati. Nulla hanno tolto agli italiani. Nulla toglieranno.

Non “disturberanno” sulle nostre spiagge o sui nostri treni, prima o poi – nonostante una legge sulla cittadinanza vecchia e a ostacoli – quelle spiagge e quei treni saranno formalmente anche loro. E non saranno sfruttati o comprati. Non raccoglieranno pomodori con tanto lavoro e per pochi euro. Almeno per loro il “pericolo” è passato (anche se non del tutto). Giuseppe, Salem, Saber ce l’hanno fatta. Portano il nome del papà per eccellenza, della pace e della pazienza. Parole di cui abbiamo più che mai bisogno. Sono la memoria e il presente, il dramma e la speranza. Sono l’Italia, che è casa nostra e casa loro. Benvenuti piccoli, buona strada. Insieme a noi, a tutti noi.

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