giovedì 15 ottobre 2015
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«Il tenero e misterioso rapporto di Dio con l’anima dei bambini non dovrebbe essere mai violato. Il bambino è pronto fin dalla nascita per sentirsi amato da Dio, è pronto a questo». Vengono al mondo, i figli, come naturalmente pronti a essere amati, ha detto ieri il Papa. A essere amati dalla madre e dal padre, e a riconoscere in questo amore l’eco di un altro, anteriore, originario amore. Ma, noi che li mettiamo al mondo, s’è chiesto Francesco, «che cosa promettiamo loro?». È una domanda molto moderna, questa, una domanda che tante giovani donne si pongono nei mesi dell’attesa, soprattutto del primo figlio.  Forse le generazioni che combattevano con la fame si facevano meno domande: l’importante era assicurare il pane, poi la vita avrebbe provveduto al resto. Ma nelle nostre case metropolitane, calde e sicure e però spesso solitarie e sradicate, succede che una giovane madre si domandi: ora che nasci, cosa ti daremo, cosa ti diremo? E forse questo dubbio sul senso del venire al mondo è anche ciò che rode i tassi demografici d’Occidente: quasi un virus, un sospetto sulla stessa bontà del nascere. Come tantissime donne ho attraversato, a suo tempo, questa fase di trepidazione, aspettando il primogenito. Con gli altri due, no: perché il primo aveva già fatto in tempo a insegnarmi molte cose. Già, a pochi mesi, il sorriso radioso con cui mi accoglieva, al risveglio, dissipò tante mie nuvole. Ma cosa avrà da sorridere? mi chiedevo, nell’ombra di una malinconia, di una crepa nelle fondamenta respirata fin da piccola. Quel sorriso sbaragliava ogni domanda – come il sole scioglie il ghiaccio, a marzo. E mi sembrava che a insegnare fosse lui, «pronto dalla nascita» a sentirsi amato da noi due e, attraverso di noi, da Dio, come dice il Papa. Nascono programmati per essere amati. In questo mondo feroce e folle, è struggente, a pensarci, che Dio mandi sulla Terra milioni di questi bambini inermi, con quegli occhi. Ma nascono ogni giorno anche in Siria e in Libia e in Sud Sudan e in Brasile: con quegli occhi, come la domanda di Dio eternamente, cocciutamente ripetuta. La naturale programmazione all’amore del primo figlio mi insegnò molto. Quando, una notte d’estate, lui di due anni, già assonnato in braccio a me, rientrando in casa e gettando un’ultima occhiata al cielo mi domandò chi le aveva fatte, le stelle. 'Chi' le aveva fatte: come dando per ovvio che una tale bellezza non poteva essersi fatta da sola. Come quando, appena capace di stare in piedi, vide per la prima volta il mare: e restò per lunghi istanti muto, e poi si voltò e mi si buttò fra le braccia, pazzo di gioia, grato. Che i bambini, in realtà, la sappiano lunga su cose di cui, crescendo, capiamo sempre meno, me lo confermò il secondo figlio, in un torrido giorno di luglio al mare – fuori dalla finestra la linea dell’ombra, nerissima sulla ghiaia del cortile. «Ma a cosa serve, l’ombra?», cominciò lui, che aveva quattro anni. E io, affaccendata in casa, davo risposte distratte. Ma lui, dopo un momento di silenzio: «Forse l’ombra serve perché siamo più contenti della luce». Alzai gli occhi, che cosa hai detto, domandai, ma lui già era tornato a giocare. Questo mi è tornato alla mente, in una raffica di ricordi, nel sentire il monito del Papa, ieri mattina: «Il tenero e misterioso rapporto di Dio con l’anima dei bambini non dovrebbe essere mai violato...». Come se i figli venissero al mondo con un’arcana memoria di bene, che gli vedi in faccia nei primi anni: una certezza di essere stati pensati, tessuti, voluti, una genuina fiducia di ritrovare quel bene. Poi crescono, e assorbono ciò che vedono in noi. E anche se non incontrano guerra, fame, persecuzione, trovano nelle nostre case 'fortunate' l’inquilino silenzioso e amaro del dubbio: che sia un bene nascere, che ne valga la pena, che ci si possa, davvero, volere bene per sempre. Dubbio ancora più fiero che ci sia, dietro a tutto, un Dio, e un Dio buono. Il compito più grande, direi a mia figlia quando aspetterà un bambino, è quello che ha detto il Papa: mai violare il suo tenero, istintivo rapporto con Dio. E come, potrebbe chiedermi lei, forse dovrei fingere di non dubitare, di non aver mai paura? No, ma, le direi, invece fidati di lui, che è appena nato: di quella arcana sapienza, del sorriso, della fiducia in cui ti guarda. Di una misteriosa memoria di felicità, che ancora gli si scorge addosso. (Come di uno che, esule, non dimentichi la patria in cui è nato, e sia certo, e felice di tornare, alla fine).
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