giovedì 6 maggio 2010
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La Grecia brucia. Ma il catalogo delle colpe e delle responsabilità – che pure ci sono, e grandi, sia da parte dei governi ellenici sia da parte dell’Unione Europea – è costretto a cedere il passo all’irrompere impetuoso della realtà: questa volta non si parla più di soli numeri, di differenziali fra i rendimenti dei titoli di Stato, di previsioni sul deficit e sull’entità del debito, ma di guerriglia urbana, di vittime ad Atene, di scontri di piazza a Patrasso, Salonicco, Corfù. Dagli impalpabili parametri di Maastricht siamo passati a un disagio umano immenso, coagulatosi nello sciopero generale, che per la prima volta da quando la crisi dei conti ellenici è diventata strutturale ora morde nel profondo la società e i cittadini, defalcandone i redditi, amputandone le sicurezze, ipotecando per milioni di essi un futuro all’insegna di una umiliante retrocessione sociale.E accanto a questa austerity – che il governo Papandreou ha dovuto firmare con l’Unione Europea e il Fondo monetario internazionale e che ha tutto il sapore di una resa senza condizioni –, ecco apparire la violenza di piazza, frangia estrema del disagio, localizzata fin che si vuole e riconducibile a pochi gruppuscoli di intonazione anarco-insurrezionalista (la Grecia – come i Paesi Baschi – ne è instancabile incubatrice), ma capace di rinfocolare un malcontento che i greci faticano a dominare. E li si può comprendere: come dice l’economista francese Jean-Paul Fitoussi, «non è giusto sanzionare un popolo per le colpe di un governo: per le misure di austerità, che comunque non devono essere brutali, serve il consenso popolare».I greci avevano capito da tempo che il Paese delle cuccagna nel quale vivevano da oltre trent’anni grazie a un’allegra gestione dei conti pubblici e a complicità stratificate a tutti i livelli della politica e della macchina statale aveva i giorni contati. La realtà tuttavia è stata più rapida della loro capacità di adattarsi al nuovo corso e ha bruciato le tappe. Non solo. Al di là dei confini greci, lontano cioè dall’epicentro di questo terremoto finanziario che è diventato sisma sociale, si gioca una partita ancora più importante, la cui posta in gioco è altissima: come ha detto senza mezze parole il cancelliere tedesco Angela Merkel, «siamo a un bivio della nostra strada: dobbiamo evitare una reazione a catena nel sistema finanziario europeo e internazionale e un rischio di contagio verso altri Paesi membri dell’Eurozona».Merkel (cui peraltro si debbono esitazioni e ritardi imputabili al timore di perdere consensi nelle elezioni regionali del Land Nord Reno-Westfalia del 9 maggio prossimo) ha ragione: attorno alla fortezza Europa si muove accanita la speculazione internazionale, che punta a "monetizzare" le debolezze e le falle dell’Eurozona colpendo oltre alla Grecia il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda, forse anche l’Italia. Ma il bersaglio grosso non è tanto il debito sovrano di questo o quello Stato (Portogallo e Spagna sono i Paesi maggiormente a rischio di declassamento), bensì l’euro stesso. Ieri la moneta unica europea è scesa a 1,28 nei confronti del dollaro, ed è l’intero edificio dell’euro a essere preso d’assalto. Lo stesso edificio che negli anni scorsi aveva magnificamente resistito alla crisi delle Borse asiatiche e anche alle tempeste che venivano da Wall Street proprio grazie alla forza che manteneva sul dollaro. Una supremazia che ora è manifestamente in discussione. Per questo siamo davvero a un bivio. Il bivio fra gli egoismi nazionali e la scelta consapevole di una politica comune fra tutti i membri dell’Unione. Senza la quale l’euro – e non siamo solo a noi a dirlo – ha i giorni contati.
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