mercoledì 6 aprile 2016
 Felicità, giustizia e bene La chiave è nelle relazioni
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Il recente commento di Massimo Calvi al Rapporto Mondiale sulla Felicità ha introdotto un tema d’importanza chiave non solo per i lettori di questo giornale, ma credo per tutti, formulando implicitamente tre domande: una società felice è anche giusta? Le classifiche sui livelli di felicità dei paesi indicano univocamente paesi migliori di altri? E ancora, dobbiamo usare la soddisfazione di vita individuale come stella polare delle scelte e massimizzarla? Si può immediatamente rispondere 'non necessariamente' alle prime due domande e decisamente 'no' alla terza per complicare un po’ le cose. Ma prima di un doveroso approfondimento è opportuno fare alcune premesse. Probabilmente la scorciatoia della parola 'felicità', usata spesso per fini mediatici appare leggermente fuorviante, perché ciò che misuriamo negli studi è in realtà la soddisfazione di vita o, in altri lavori, il senso della vita. Ovvero non chiediamo se una persona stia provando un piacere in quel momento ma se, facendo una valutazione della propria esistenza, si ritenga soddisfatto di essa o pensi che la propria vita abbia senso. In questa prospettiva l’identità tra felicità e piacere e infelicità e dolore è assolutamente fuorviante. In secondo luogo studiare la felicità (o meglio la soddisfazione e il senso della vita) e le sue determinanti non vuol dire porsi automaticamente l’obiettivo di massimizzarla. È piuttosto percorrere una via d’importanza fondamentale (e usare una miniera di informazioni solo da poco disponibili) per capire qualcosa in più della natura umana e delle persone dei nostri giorni. In aggiunta a ciò l’informazione meno importante degli studi sulla felicità (perché influenzata da fattori culturali) è proprio quella della classifica dei livelli di felicità tra paesi, mentre molto più importanti sono i risultati sulle determinanti della felicità e le variazioni di felicità all’interno di un medesimo paese. Queste premesse sono solo un punto di partenza nella riflessione sul rapporto tra felicità, giustizia e bene. Un primo pregiudizio da sfatare è che la soddisfazione di vita individuale misuri il piacere individuale goduto a scapito del bene altrui. I dati a nostra disposizione indicano tutt’altro, perché tra i fattori più importanti ci sono il successo della vita di relazioni (sposati più felici di separati e divorziati), volontariato, pratica religiosa, partecipazione civica. La filigrana che emerge dalle impressionanti regolarità di questi studi è quella di un uomo essere-inrelazione la cui soddisfazione di vita dipende in modo importante dalla sua generatività sociale. Da questo punto di vista l’uomo ad immagine e somiglianza cristiano e il paradosso laico della felicità di John Stuart Mill arrivano paradossalmente alla stessa conclusione: possiamo realizzare la nostra vita nella misura in cui siamo generativi e ci doniamo agli altri, e non cercando la soddisfazione dei nostri piaceri o la nostra felicità di per sé. La coscienza umana, anche quando non perfettamente formata, funziona e sembra quasi esistere una cifra biologica alla quale non sfuggiamo: l’homo economicus è come il pesce che si ostina a vivere fuori dall’acqua delle relazioni. Fino ad arrivare ai dati impressionanti sulla popolazione in età avanzata che indicano come l’insorgere di malattie sia significativamente legato agli shock relazionali e alla perdita di senso della vita o a un livello di generatività sociale troppo basso: in sostanza dobbiamo sentirci utili per qualcuno per poter sopravvivere. L’altro pregiudizio di natura opposta è che una scelta religiosa che sia seria non possa produrre una soddisfazione di vita. È esattamente il contrario, come leggiamo nei brani più importanti del Vangelo, dove radicalità e gioia non sono affatto disgiunti e dove il Regno non è solo un premio nell’aldilà, ma anche un 'qui ed ora' anche se un 'già e non ancora'. Tra tutti, senz’altro il brano del centuplo per chi lascia tutto e la teologia Paolina dove la logica del cuore (che va oltre ma non fa a meno di) supera la logica della legge.  Secondo un noto detto 'non esistono santi tristi', perché nella sintesi della mistica, gioia piena e radicalità si incontrano anche in mezzo a patimenti e sofferenze, non cercate masochisticamente ma vissute per amore di giustizia. Detto questo, dobbiamo anche ammettere che la soddisfazione di vita non cattura tutto ciò di cui abbiamo bisogno per rendere migliori e più giuste le nostre società. E riconoscere che nello sforzo che produciamo per raggiungere quest’obiettivo possiamo essere frustrati perdendo per un attimo (ma non per sempre) la bussola della soddisfazione e del senso (il vertice letterario veterotestamentario da questo punto di vista è lo sconforto di Geremia). Inoltre, se esiste una trappola di bassa generatività nella quale infelicità e male vanno a braccetto, possono esistere zone grigie dove ci si può accontentare di una generatività sufficiente che assicuri un senso minimo al proprio esistere con la scarsa ambizione che impedisce di metterci in gioco per mete più impegnative di soddisfazione di vita. Ma siamo sicuri che quel qualcosa che abbiamo dentro e ci chiede di andare sempre oltre ci lasci felici?  Per concludere (o meglio forse solo per iniziare la discussione) non è certo la ricerca del piacere, e nemmeno quella della felicità personale cercata di per sé (meta illusoria e mai raggiungibile se posta in questi termini), la meta di una vita buona. È piuttosto il desiderio ostinato ed intelligente di spostare con il proprio sforzo e la propria generatività in avanti la frontiera del bene, sapendo essere 'contemplativi nell’azione' e non perdendo la connessione profonda interiore con le ricompense di soddisfazione e di senso del proprio esistere che, sappiamo, troveremo in abbondanza lungo la strada.
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