venerdì 20 febbraio 2015
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G<+TONDODIR_RISP>entile direttore,
vorrei ringraziare “Avvenire” per le ottime pagine dedicate domenica scorsa al mercato dei gameti, in particolare degli ovociti. Il tema è imbarazzante e i mezzi di comunicazione tendono a ignorarlo. Eppure è chiaro che esiste ormai una rete strutturata e ben organizzata che copre moltissimi Paesi e che vuole penetrare anche in Italia. La fecondazione eterologa necessita obbligatoriamente dei cosiddetti “donatori”, termine con cui si vela pudicamente un ampio giro di affari fondato sulla compravendita dei gameti e sullo sfruttamento delle giovani donne in condizioni di bisogno. Per anni ci hanno detto che non era così. Per anni, nei dibattiti, ho ascoltato importanti specialisti (potrei citare i nomi) raccontare che, nel mondo ideale e autoregolato in cui si praticava la fecondazione in vitro, compresa quella eterologa, prima della legge 40, non c’era necessità di ricorrere al mercato. In quel mondo beato e solidale, si utilizzavano solo ovociti prodotti dalle stesse donne che si sottoponevano ai trattamenti di fecondazione assistita, e che mettevano gratuitamente a disposizione di altre donne una parte dei propri ovuli.
Oggi emerge una verità ben diversa: i gameti mancano, di donazioni vere, cioè gratuite, non c’è traccia. Il re è nudo; e sono nudi anche quei presidenti di regione che hanno spinto, e spingono, per consentire di praticare la fecondazione eterologa a qualunque costo.
Oggi, quando si pone il problema della gratuità, la risposta degli operatori del settore è disarmante: la domanda di ovociti è elevata, si dice, e l’offerta scarsa. Ai “donatori” non basta un rimborso spese, specie alle donne, vista l’invasività dell’intervento: senza una qualche forma di compenso non ci saranno mai gameti a sufficienza per rispondere a tutte le richieste. Ma se il criterio è l’equilibrio tra domanda e offerta, a fronte di un “diritto” all’eterologa, mi chiedo allora per quale motivo non si fa lo stesso ragionamento per la donazione di organi, proponendo una forma di compenso per chi potrebbe offrirne, da vivente, a persone gravemente malate. Sarebbe tecnicamente possibile per reni, lobi polmonari, segmenti di fegato, pancreas o intestino. Allora, perché non stabilire un opportuno “risarcimento” per chi, cedendo un proprio organo – e potendo comunque continuare a vivere in salute – salverebbe la vita a un’altra persona?
Quante persone sono morte, mentre, in lista d’attesa, speravano arrivasse per loro un rene di ricambio? Se si pensa di incentivare economicamente (anche solo mediante una forma di “indennità” e non un pagamento esplicito) l’offerta di gameti, a maggior ragione si dovrebbe seguire la stessa strada nel caso sia in gioco una vita umana.
Insomma, se mercato deve essere, che mercato sia. Discutiamone apertamente, senza infingimenti, senza imbarazzati silenzi, senza usare a sproposito parole come “donazione”. Ma con onestà intellettuale, rispondiamo alla domanda: è giusto, è accettabile pagare chi cede parti del proprio corpo ad altri che ne hanno bisogno per sopravvivere? È giusto che si apra un mercato del corpo umano? Se si risponde di “no”, perché sono chiare le gravissime implicazioni etiche e sociali di una scelta simile, qualcuno spieghi perché invece si è così tolleranti, così disponibili a chiudere un occhio quando si tratta della fecondazione artificiale. Qualcuno mi spieghi perché sulla stampa nazionale non si trova mai un servizio come quello pubblicato da “Avvenire”.
Eugenia Roccella - Parlamentare di Area popolare e vicepresidente Commissione Affari Sociali della Camera
Non sono io, gentile e cara onorevole Roccella, a dover rispondere all’interrogativo finale di questa lettera. Potrei, ma non voglio, dire perché troppi altri giornali nascondano ancora oggi, persino davanti alle evidenze, la pesantissima e dilagante realtà della mercificazione delle persone attraverso i meccanismi propri della procreazione artificiale e raccontino, invece, la favola della conquista di uno spazio di libertà e di autorealizzazione delle persone... Posso e voglio dirle, piuttosto, perché noi di “Avvenire” abbiamo immediatamente denunciato il rischio e la concreta prospettiva di un ritornante “commercio della vita” dopo che un’infelicissima sentenza della Corte costituzionale ha aperto le porte, anche in Italia, alla fecondazione eterologa, cioè realizzata con seme od ovuli di persone estranee alla coppia madre-padre. Una pratica, ricordiamolo, che era stata saggiamente fermata grazie alla legge 40: preziosa (eppure avversatissima sia da libertari radicali sia da rigoristi anti-provetta) “normativa di incontro” tra visione morale cattolica, favorevole alla generazione naturale e contraria alla procreazione artificiale, e visioni laiche non rassegnate alla “rimozione culturale” del diritto di ogni figlio a conoscere madre e padre, la storia di cui è parte e che continua. Abbiamo semplicemente e schiettamente preannunciato ciò che purtroppo da anni vediamo accadere in tutti i continenti e che raccontiamo con crescente consapevolezza e allarme: la vita umana ridotta a “prodotto” nel supermarket della procreatica. Abbiamo denunciato, e continueremo a farlo, la contiguità straziante tra banconi di laboratorio e banconi del mercato. Grazie, gentile vicepresidente, per l’apprezzamento che riserva al nostro lavoro e per l’acuta e profonda condivisione del nostro obiettivo di far trionfare chiarezza e umanità.
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